lunedì 24 dicembre 2012

Lettera di Natale.

Caro Babbo Natale,
stasera sono ventitre anni esatti che so che non esisti. È successo la vigilia del 1989. Volevo assolutamente sapere cosa mi avresti portato, così mio fratello, ragazzo pragmatico e integerrimo, ha aperto l'armadio dei nostri genitori e ha detto: guarda. E non era nemmeno la cosa che volevo, perché avevo richiesto un cagnolino e mi è arrivato un mangiacassette Bontempi che faceva anche i versi degli animali, tra cui il cane. Capito che beffa? La figlia di nessuno. Comunque sempre meglio dell'anno prima. Lì, mi aveva fatto credere che al cento per cento sarebbe arrivato il mio cagnolino. Come lo vorresti? E io dicevo uno qualunque, uno qualunque, anche uno piccolino e me lo faceva scegliere dall'atlante dei cani. Invece arrivò il castello dei Lego, adatto a bambini dagli otto anni in su. Ho passato tutto il Natale a masticare pezzi di torre, nella speranza che qualcuno si accorgesse che avrei potuto soffocare. Ma anche lì, nulla. Da quando ho scoperto che non esisti sto meglio. A un certo punto avevo iniziato a pensare che i cani ti stessero antipatici e la cosa mi faceva venire da piangere. Di fatto piangevo, accoccolata sotto l'albero, perché sono stata una bambina molto triste. Da quando ho scoperto che non esisti, ho iniziato a chiedere soldi e così, a sette anni, già impugnavo la mia busta piena di lire, congetturando cose, facendo calcoli su ciò che avrei comprato. Amavo contare i miei denari la mattina di Natale e pensavo a quei poveretti dei miei compagni di classe, che ancora passavano il loro tempo a scrivere letterine e chiedere Cantatu. E quando a scuola ci facevano scrivere la letterina per Babbo Natale io ero tranquilla, perché conoscevo la verità, e allora mi buttavo su massimi sistemi tipo la pace in Jugoslavia o l'evergreen dei bambini poveri con le mosche sulla faccia. Tanto io non avevo nulla da guadagnare e un po' di cibo per loro o una protesi a una gamba non mi avrebbe privato della mia busta colma di denaro. Insomma, non esisti. Ma nemmeno Saffo aveva i baffi esiste, cioè, c'è ma non c'è, e allora penso che se due entità che non esistono si scrivano, qualcosa debba accadere per forza. Allora accogli questa lettera invisibile. Caro Babbo Natale, io quest'anno vorrei un po' di culo. Vorrei che le cose iniziassero a funzionarmi tutte, come davvero succede a certe persone. Perché le persone fortunate esistono! È inutile che continuiamo con sta storia che la gente sta tutta male, non è vero. Il prossimo anno voglio che giri per me. Quest'anno ho perso la mamma, il lavoro e diversi treni, di quelli che però ripassano dopo mezz'ora. Due ombrelli, le chiavi e un racconto che avevo scritto tempo fa e che mi pareva molto bello. Non c'è più, da nessuna parte. Si chiama Zia Claudia, per favore, fammelo ritrovare. No, non è nemmeno nell'hard disk, no, nemmeno tra i documenti. È sparito, ma tu che non esisti so che puoi. Poi vorrei farmi un viaggio, un viaggio bello però, non quei surrogati di ponte o cose così. Voglio un viaggio avventuroso e pieno di suspance, nel caso sono disposta anche a prendermi la malaria, purché la si curi in tempo. E poi vorrei stare tranquilla: amare chi mi ama, riuscire a respirare bene anche senza le goccine, fare cose normali ed essere felice di farle. Vorrei non pensare alla morte ogni giorno, mia o di altri. E vorrei non avere la tonsillite. Vorrei che ogni giorno fosse magari non bellissimo, però soddisfacente, cioè non tanto soddisfacente, leggero. Vorrei sentirmi leggera senza la scimmia della solitudine, dell'ansia, dei libri che dovrei leggere, delle cose che vorrei scrivere. Vorrei che qualche problema si trasformasse in soluzione, e qualche soluzione in problema, perché tanto comunque in quel caso la soluzione la conoscerei e tutto si risolverebbe come niente fosse. Geniale, no? E poi vorrei capire se la mia vita ha un senso e se sì quale: so che non è un problema da niente e che in tanti ci sono morti, ma insomma, almeno un indizio, un segno, non so vedi tu. E poi vorrei che tutte le persone iniziassero ad avere la mia stessa ironia, soprattutto per quanto riguarda le battute su chi soffre. E vorrei non aver paura di niente, e vorrei imparare a cucinare qualcosa di decente, e vorrei imparare anche eventualmente a stirare. O comunque vorrei trovare una filippina a buon prezzo, onesta e magari di bell'aspetto. Che comunque han bisogno di lavorare. E poi vorrei che al cinema dessero solo film bellissimi, guardarli tutti e sentirmi sempre come dopo Tutto su mia madre o le storie di Kaurismaki che per me sono imprescindibili. E poi vorrei provare delle emozioni: tipo commuovermi o piangere per la felicità, che è una cosa che secondo me funziona solo alle olimpiadi. E allora vorrei partecipare alle olimpiadi, ma questa temo sia l'unica cosa veramente impossibile. Basta, ho finito. Ricapitolando: toglimi tutto questo peso che ho addosso e fallo in fretta, per favore. E tu invece cosa vuoi? Dai, scherzo, inculati. Ci sentiamo l'anno prossimo.
S.

domenica 23 dicembre 2012

Il mio primo amore erano tre.

Il Natale mi trova da sempre in uno stato di felice indifferenza. L'unica cosa che lo rende degno di nota sono i miei parenti, perché ho una famiglia molto numerosa e piena di freak, quindi, a suo modo, bella. Da sempre tutta questa gente fondamentalmente sconosciuta, ma con i miei stessi geni, mi è di grande ispirazione. Da qualche anno poi nessuno mi chiede più del mio fidanzato. Qualcuno deve aver cantato, forse la mia incapacità di accavallare le gambe. All'inizio trovavo molto imbarazzante tutta la situazione, poi li ho guardati bene e ho capito di essere una di quelle a cui comunque la vita aveva dato di più. Sono sicura che sia stata mia madre a cantare, in ogni caso. 

Ricordo che c'era una cosa per cui lei non si dava pace, riguardo la mia omosessualità. Credeva, come molti genitori, di aver sbagliato qualcosa con me: ma cosa? Io le rispondevo che aveva sbagliato tutto, ma che sarei stata lesbica in ogni caso. Se avessi saputo che non ci sarebbe stata più così presto, avrei risposto diversamente, ma un'amica recentemente mi ha detto che i sensi di colpa postumi sono inevitabili, quindi eccomi qui. Insieme alla sua malattia, sono cadute molte inibizioni, anche il tabù dell'omosessualità, ma non la sua inquietudine a riguardo. Un giorno, in ospedale, mi disse: eppure nella nostra famiglia non c'è nessun altro, tentando di esplorare goffamente il fattore ereditario. E mi chiese anche: ma ci si nascerà o ci si diventa? Quesiti enormi e senza risposta. Immagino che in questo momento, ovunque sia, avrà una visione più distaccata della questione.

C'è una storia che forse l'avrebbe tranquillizzata e sollevata da qualche senso di colpa (una famiglia piena di sensi di colpa, la mia), che non ho fatto in tempo a raccontare, ma che penso sia tanto illuminante quanto assurda. Io mi sono innamorata per la prima volta di una bambina a quattro anni. E non era una, erano tre gemelle, due delle quali omozigoti, la terza molto diversa e per questo per nulla felice. Erano mie compagne di asilo, le chiameremo C., V., B. Avevo trascorso il primo anno di scuola materna pisciandomi addosso, perché dei bulli della classe accanto mi facevano le poste fuori dal bagno. Dio li maledica per sempre, me li ricordo come fosse ieri. Poi è successo che il secondo anno di asilo non mi sentivo più la stagista della situazione e ho adottato un certo savoir faire, nonostante le scarpe con gli strappi indicassero chiaramente un mio deficit, ovvero il non sapermi allacciare le stringhe. In più rifiutavo categoricamente il grembiulino rosa e quel secondo anno si aprì felice, con un grembiule giallo canarino. I bulli erano andati a morire in prima elementare. Insomma, stava cominciando per me un grandissimo momento. A me piaceva molto V., che era identica a C., ma comunque mi piaceva V., perché erano uguali ma diverse. Riesco a vedere distintamente il pomeriggio in cui dichiarai il mio amore. È stato dopo ginnastica perché addosso non avevo l'amato grembiulino, ma una tuta del wwf, verde con un grande panda sulla pancia (dove l'avevano presa? Perché?). 

È successo sotto un albero grande, che ora mi sembrerebbe molto meno grande. Era un pino e gli aghetti ci pungevano il sedere. È una delle poche cose che ricordo della mia infanzia. Le ho detto vuoi essere la mia fidanzata? E lei mi ha spezzato il cuore dicendomi che i principi erano maschi. Col senno di poi avrei potuto rispondere che non avevo mai  accennato a un principato, ma fa nulla. Sono corsa via a giocare a spadaccini con le foglie. Però non mi sono data vinta, perché c'era C. che comunque, ragazzi, era identica. Così mi sono fatta avanti anche con lei. Non ricordo distintamente la situazione, ricordo che però la cosa uscì con la maestra, che era anche una suora, e che mi disse che i bambini stavano con le bambine e le bambine con i bambini e mi regalò qualcosa come un mandarino. Maledetta troia. La cosa buttava male, anche perché per conquistare la seconda le avevo regalato un mio bellissimo Polly Pocket, quello a conchiglia azzurrino, che a piano terra aveva un laghetto con ponteggio, di cui ho trovato una foto per caso su google, e se la guardo piango (magari è proprio il mio). Cosa dovevo fare? Sono andata da B., che però era tanto diversa da V. e C., perché era cicciotta e aveva i capelli più scuri e un caschetto francamente imbarazzante. Mi disse di sì senza problemi: era sola e disperata, uguale e diversa allo stesso tempo e abituata agli scarti delle sorelle più fighe. E tra quegli scarti c'ero anche io.

È stata una storia intensa, ma tormentata. La prima di una lunga serie. È stata bella soprattutto per lei, che voleva ogni giorno anche il mio pranzo, la mia mela, i miei dolcini e diventava sempre più grassa, mentre io, che già ero secca, deperivo. Mia madre mi pesava ogni tre giorni, finché non le ho raccontato tutto. Cioè, dentro di me capivo che c'era qualcosa di strano nella situazione, allora le dissi semplicemente che una bambina grassa mi rubava il cibo e i giocattoli. Sono stata vigliacca, lo so. Ma a lei comunque non era mai fregato niente di me, ero io la parte lesa. Ci siamo separate bruscamente, a pranzo mi hanno messo con altri bambini e ho imparato ad allacciarmi le stringhe con il metodo orecchie di coniglio, che era stimatissimo. 

Questa vicenda mi ha insegnato molto. Un giorno B. l'ho incontrata per strada. L'ho riconosciuta subito. È dimagrita.


venerdì 21 dicembre 2012

La miglior risposta di 4 anni fa.

Quando ero molto giovane e muovevo i primi passi nel complicatissimo mondo lesbico, due erano gli ostacoli che mi sembravano insormontabili: come faccio a capire se una ragazza è lesbica? Come faccio a mostrare a una ragazza di essere lesbica? La questione era delicata, perché si trattava dello stesso dramma da due punti di vista chiaramente opposti. Sono passati diversi anni da quei terribili quesiti (che comunque non hanno mai avuto risposta), ma il tema è davvero un evergreen.

Qualche tempo fa, a una festa, mi si avvicinò una giovane lesbica, amica di un'amica del tutto eterosessuale. Mi disse che il mio blog le piaceva molto, io nel mentre svuotavo il primo gin lemon, già chiaramente alterata, perché mi basta davvero poco. Vivo costantemente in uno stato che appare karmico, ma in realtà è febbrile, e che l'alcol smaschera in un modo che definirei sfacciato. E quindi mi ritrovo con questa giovane lesbica, anche carina, che mi dice, sai, mi sono scoperta lesbica da poco, ma secondo te come faccio a capire se un'altra lo è? Mi sono commossa: una domanda del genere ai tempi di internet. È stata così dolce e anacronistica che avrei davvero voluto risponderle qualcosa che potesse esserle utile, invece poi abbiamo parlato della Vita dell'Alfieri, che stava preparando per un esame. Che vita, no?

Però poi ci ho pensato, e ho pensato anche che anni fa la questione del gay radar andava tantissimo. A me il termine ha sempre fatto orrore: mi ricorda certi insetti, certe antenne brutte che captano e poi corrono verso questa meta precisa, confermata dall'istinto, mi ricorda gli scarafaggi, che sono l'unica cosa che temo davvero nella vita. Io questo radar, per esempio, non ce l'ho mai avuto e alla fine un po' mi rode, per questo lo condanno e lo associo a quelle terribili creature del buio. Mi è sempre toccato andare a caso, saltare da un ramo all'altro come una bertuccia nevrotica, sperando che qualcuno, una a caso, mi dicesse: ok, per me si può fare, indipendentemente dal suo certificato di lesbismo.

Ho anche cercato di affidarmi a certe dicerie, tipo quella dell'anello sul pollice. E pure a quella dell'indice e dell'anulare, che se l'anulare è più lungo dell'indice è lesbica al cento per cento. Come no. E allora via, serate intere a guardare mani e pensare che faccio, mi muovo? Come mi muovo? Un incubo. Insomma, la ragazzina della Vita dell'Alfieri era preoccupata, perché temeva di rimanere sola per sempre, per via di questa scarsa attitudine al riconoscimento. E io sono stata inutile e poco concreta come mi spesso accadde. Ma questa sera voglio riscattarmi, e ho deciso di dedicare del tempo alla ricerca. 

Io penso che davanti a cose del genere, non si possa che rimanere in un silenzio rispettoso.

martedì 18 dicembre 2012

5+5

Sono giorni molto difficili. Non voglio nemmeno spiegare perché. Ma sono molto difficili. Se provo a dormire, mi prende una tosse convulsa, tipo Violetta nella Traviata. Con la differenza che non sono una puttana e soprattutto non sono a Parigi. Più la seconda che la prima. Se non provo a dormire, tento di leggere, ma non ce la faccio, perché o mi rompo le palle, o mi rode che quella cosa non l'abbia scritta io. Se metto la musica sveglio i vicini. E le cuffiette non mi vanno. In tutto questo, da tre giorni a questa parte, il papa dice che sono una minaccia per la pace. Io.

Allora ho pensato: scrivo un post, almeno glasso un po' l'ego e poi buonanotte a tutti. Avrei una serie di argomenti in sospeso, per esempio la mediocrità di Carmen Consoli, l'estinzione del concetto di gay radar e il dress code lesbico, ma sono davvero troppo impegnati. In più, domani, la gente passerà la giornata a condividere video di Benigni, e questo no, non posso sopportarlo. C'è bisogno di leggerezza. Così stilerò una semplice classifica del perché le donne mi piacciono e del perché no.

Le donne mi piacciono perché:

1. Sono mammiferi. Possono fare bambini, ma anche non farli. Quasi sempre a loro discrezione, almeno nel mondo occidentale. Questo significa che da una donna possono nascere un uomo oppure un'altra donna, quasi sempre infelici, ma ogni tanto capita di no. Se le donne sono mammiferi allattano, quindi hanno le tette. Che secondo me, insieme ai lobi delle orecchie sono la più immensa creazione di tutti i tempi. Vai a sapere perché: ho sicuramente dell'irrisolto.

2. Vanno nel panico, ma spesso è un panico del tutto apparente. Nel senso che hanno appena iniziato a piangere e già studiano una soluzione, sempre che non l'abbiano già trovata. È una cosa miracolosa e ancora più miracoloso è il fatto che lascino credere agli uomini di avere enormi qualità nel problem solving.

3. Si vedono sempre imperfette.

4. Hanno una dolcezza intrinseca, anche le peggiori. 

5. Potenzialmente sono tutte accessibili. Il che per noi lesbiche è una grande cosa, a differenza dei fratelli gay, che devono vedersela ogni volta con: machismo, virilità ostentate e patetiche, istinti animali che noi abbiamo lasciato nella caverna di fianco alla pentola dei legumi, tanti tanti secoli fa. Se sei un ragazzino e ti piace un ragazzino, è un problema. Se sei una ragazzina e ti piace una ragazzina, puoi dissimularlo in moltissimi modi. Le bambine crescono tenendosi per mano, dandosi bacini e scambiandosi i leccalecca. Non ci sono barriere reali tra donne. Durante l'adolescenza ci si trucca e ci si vede nude. Poi a vent'anni non vuoi fartela una scopata? Basta essere strategiche. Io sono cresciuta senza tenere nessuno per mano, senza dare bacini, senza mangiare leccalecca, senza truccarmi e senza mostrarmi nuda. Tutto questo ha mosso enorme curiosità, ed è il motivo per cui le donne sono arrivate comunque: non si sentivano abbastanza al centro dell'attenzione.


Le donne non mi piacciono perché:

1. Quando sono cretine, lo sono irrimediabilmente.

2. Tendono a rinfacciare qualunque cosa, a distanza di anni. 

3. Sanno ferire con grande precisione.

4. Tendenzialmente vogliono sempre stare appiccicate, il che per me significa anche solo darsi la mano una o due volte l'anno.

5. Prima o poi ti lasciano. O le lasci tu. Che alla fine sei una donna, oppure questo non sarebbe un blog lesbico. 

domenica 9 dicembre 2012

Sciroppo.

Questa sera sono malata, e mi sento sola. Oggi è stata una di quelle giornate in cui desidero morire, senza drammi o che. Semplicemente, voglio smettere di vivere. Ho da sempre grandi spinte alla morte, anche se con il tempo ho imparato a sdrammatizzare la cosa, tipo esasperando il tutto come se non fosse vero. In questo modo ho costruito un personaggio allo stesso tempo simpatico e macabro, ma la verità è che non sono né l'una né l'altra cosa. Semplicemente mi sento la morte addosso, come i negri la musica e Michael Jackson i bambini. 

È proprio così, da quando sono molto piccola. Certo la storia della mia famiglia ha facilitato il tutto, e anche l'atmosfera, respirata dai primi anni di vita. Il Natale, per esempio: vietato anche solo nominarlo, se non per dirne il peggio. In casa mia non è mai avvenuto uno scambio di regali. In questo modo non ho mai avuto ben chiaro il concetto di dono. Quando qualcuno mi regala qualcosa mi offendo, oppure mi intristisco molto, perché non ne colgo il motivo. E ovviamente non mi viene mai in mente di fare regali a nessuno. In questo modo le feste e i compleanni sono sempre giorni qualunque e questa è una delle cose che mi piacciono della mia vita. E che le mie fidanzate non hanno mai apprezzato.

Eppure non ho avuto una famiglia infelice. Forse un filo non convenzionale, ma con una parvenza di assoluta normalità. Che poi è il peggio del peggio. Quanto avrei desiderato quei genitori di sinistra che orbitavano attorno ad alcuni amici: belli, permissivi, aperti ad ogni diversità, tranne a quella di loro figlio. Non mi sono mai sentita figlia dei miei genitori e sorella di mio fratello. Mio fratello per farmi piangere mi diceva ehi, ti hanno adottata, noi non siamo la tua vera famiglia. Ma io non piangevo, anzi. Quando poi mia madre l'ha sentito e l'ha sgridato molto, io ho sofferto, perché ho capito che invece ero proprio figlia dei miei genitori e che non sarei mai partita per ritrovare quelli veri.

È questa totale mancanza di appartenenza a qualsiasi cosa, che mi destabilizza. Non passa mai, e con gli anni peggiora. Un tempo poteva dirsi una forma di ribellione adolescenziale. Poi l'alibi dell'età è scomparso, ma il problema no. Con il tempo però divento sempre più stanca e penso, devo sforzarmi un pochino, di appartenere a qualcosa. Ma a cosa? Vado al gruppo degli scacchi? Tristezza. Imparo per la trecentesima volta a suonare uno strumento qualsiasi? Depressione. Mi iscrivo al corso di mimo di quelli di Grock? Non mi piacciono le tutine attillate. Il cineforum? Il settantasette è passato da quasi trentasei anni. Gli aperitivi con i colleghi? Mi distruggono. 

E allora non mi resta altro che sopportare giornate come questa e tossire e bere a canna lo sciroppo, nella mia casa orgogliosamente priva di albero di Natale. Nella speranza che qualcuno possa capirmi, anche solo a distanza. Anzi, solo a distanza. Perché la tristezza degli altri è come la loro solitudine, va presa per com'è. Non va smorzata, non va placata. Va  guardata da lontano e le si deve fare ciao con la mano. Certo, qualcuno non capirà, ma chi capirà poi starà meglio.

La settimana prossima dovevo andare dal dentista per un controllo. Ma oggi ho saputo che qualche giorno fa è morto. È dunque così che va la vita.




giovedì 6 dicembre 2012

Un amore mai nato.


Stasera in treno mi sono seduta di fianco a una che ha detto: se mai avrò un figlio gli insegnerò da subito a mettersi a novanta. E: Turchia, ottimo rapporto qualità prezzo. Non c'entra niente con quello di cui volevo parlare, ma mi premeva. Ci sono cose che se non le tiri fuori poi è peggio, o almeno, con me funziona così. Per questo quando mi sono innamorata di F. gliel'ho detto. Anche se non era vero. Però sentivo che se non gliel'avessi detto non gliel'avrei detto. E allora gliel'ho detto. Ci ha creduto, ma non ci è stata.

Volevo parlare di questa cosa. Cioè di quando ci piace una persona che di noi non vuole saperne. Anzi no, non è corretto, perché la casistica è davvero immensa, quando si parla di amori mai nati. Comunque, vorrei fare un discorso sul non essere ricambiati, più genericamente. 

Prima, per non sentire quella del figlio a novanta, ho pensato a qualcosa che riuscisse a distrarmi. Generalmente i miei fallimenti riescono sempre ad astrarmi dal reale, perché l'imbarazzo si rinnova e attorno a me non c'è più niente. E allora ho pensato a F. e al nostro amore mai nato e al mio inusuale azzerbinamento. Penso che sia giunto il momento di rielaborare la cosa e poi abbandonarla per sempre. Non sarò breve.

La storia si divide in più fasi. Chi è stato uno zerbino (e prima o poi tocca a tutti), capirà.

FASE 1
Nel dicembre del 2010 mi accorgo che nella mia vita manca qualcosa. Passo in rassegna la libreria, e scopro che non è un libro. Cerco nei cassetti, tra le scarpe, e anche tra qualche maglietta che non metto da anni. Niente. Poi capisco: è l'amore.

FASE 2
Scorro brevemente le mie amicizie su facebook, ma non trovo nessuno che faccia al caso mio. Allora rovisto tra i numeri di telefono, con la foga di un clochard nei bidoni a colazione. E vedo F. E penso, ma chi è F.? E poi mi ricordo. È una tizia che mi piaceva tanto tempo prima, e anche io le piacevo! Mi guardo allo specchio e noto un decisivo miglioramento nella mia persona. Dalla mia ho: una buona cultura, una padronanza dell'italiano comunque oltre la media, capacità di problem solving (o almeno questo dice il cv che ho copiaincollato da un amico). Dalla mia non ho il fatto che: lavoro dieci ore al giorno per zero euro al mese, non so guidare, non ho mai imparato a suonare Smells like teen spirit alla chitarra.

FASE 3
Torno su facebook e la aggiungo. Poche ore dopo siamo amiche. Fa tutto lei, mi chiede come sto e dove fossi finita. Io non sono mai finita, cocca. Capisco che abbiamo due generi di ironia differenti: ovvero, lei non conosce ironia. Andando al sodo le chiedo se è fidanzata, ma solo per avvalorare la tesi per cui gli omosessuali sanno essere molto promiscui. Mi dice di sì, ma che non va bene, che non è felice. La sua mancanza di discrezione mi fa venire voglia di aprire il gas, tuttavia continuo imperterrita nel mio scopo. Le chiedo: ci vediamo? Mi dice: non lo so. Le chiedo: ci vediamo? Mi dice: sì.

FASE 4
Dove ci vediamo? Mi risponde: da me, perché non ho tempo. Bene. Le dico, dove stai? Mi dice: scendi a San Leonardo. Le dico: ma dov'è? Mi risponde: sulla rossa, non è lontano. E così il primo sabato utile (cioè il giorno seguente), vado. Sono 18 fermate da loreto, il mio viaggio più lungo di sempre in metropolitana. Nel tragitto riesco a leggere otto racconti di Kafka. Scendo e mi sento confusa. Emergo dalle viscere della terra e mi ritrovo nel nulla. Mi arriva un messaggio. No, dai, vediamoci qui. E mi suggerisce la fermata prima. Riscendo in metro. Alla fine ci dobbiamo bere sto caffè in un centro commerciale. A me i centri commerciali fanno venire attacchi d'ansia, in più è poco dopo Natale. Mi dice: abbiamo un'ora. Cinquanta minuti li passiamo in fila in posta. Cinque a comprare una confezione di latte di soia. Poi il caffè: dei cinque minuti rimasti ne passa tre al telefono con la sua ragazza. Si accordano per una cena. Mi dice: mi ha fatto piacere vederti. Ci metto due ore a tornare a casa. E spero che un pazzo di quelli che finiscono su corriere.it mi butti sotto il treno.

FASE 5
Non demordo. Passano alcuni giorni. Mi scrive, le rispondo. Le scrivo, mi risponde. Mi invita a pranzo. Riattraverso la città, ancora una volta. Il desco: una pizza surgelata in due. La mia metà è ancora congelata. Mastico tutto il resto del pomeriggio, in ospedale, davanti a flebo e persone tristi.  Mi scrive, le rispondo. Le scrivo, mi risponde. Ci vediamo altre volte: sempre uguale. Anzi, ogni volta è peggio. Un giorno mi dice: ti ricordi tanti anni fa quando ti volevo e tu no? Ero fidanzata, dico, ma non mi ricordo con chi. Guardo i suoi libri. Sciamanesimo, scintoismo, iching, jodorowski, Hillman, cazziemazzi. Chiedo: non hai nemmeno un romanzo? Ma cambio discorso perché ho paura che tiri fuori l'Allende. Poi mi fa tutto un discorso sul fatto che comunque lei ha bisogno di attenzioni e che la sua ragazza la trascura. Cose tipo corteggiamento, tipo. Io allora mi butto in questa logica perversa di mandarle ogni mattina qualcosa di bello. Tipo pezzi di film. Ma belli veri eh. Chiedo anche in giro. Procedo, per settimane. Poi diventano troppi, e devo iniziare a segnarmeli per non ripetermi. Ho una moleskine piena a metà di questi cazzo di film. Allorché mi dichiaro. Lei dice: anche tu mi piaci. Io rispondo: e? Lei risponde: niente.

FASE 6
Ho raggiunto un rimborso spese e grossa dei miei quattrocento euro mensili le compro un libro che non leggerà. Nel mentre è arrivata la primavera. Mi dice: dovresti metterti cose più colorate. Vado da Zara e compro un paio di pantaloni verde lega. Mi dice: staresti bene senza occhiali: compro le lenti a contatto, una cosa che reputo amorale. Poi ci vediamo una sera, al parco. Arrivano le zanzare. Dice: sono arrivate le zanzare, andiamo da un'altra parte. Si fa offrire un gelato, poi se ne va. Allora io, presa dallo sconforto in ordine mangio: un big mac menu, una confezione di gallette di mais, due muffin. Ci risentiamo. Parlo a un amico di questa situazione, lui mi dice che è chiaramente un'idiozia, di lasciar perdere. Ma è una questione di principio. Nel mentre, è vero, ho delle storielle irrilevanti, perché comunque il mio cuore è per F. Poi il miracolo: una sera mi invita a vedere un film. Poi rimani anche a dormire, se vuoi. Ok. Guardiamo La bussola d'oro. No dico, La bussola d'oro. Dopo i Godard, i Lang, i piacionissimi Truffaut e un paio di raffinati stralci di Marco Ferreri, che ad oggi temo abbia sempre confuso con quello che ha inventato la Nutella. Finisce il film e mi dice, vai a letto, dormo sul divano. È prestissimo e io generalmente non dormo mai prima delle due a.m. Per la notte ha una mise deliziosa: è vestita da ragazza della pallacanestro. È bellissima. Allora penso: è il momento, la bacio. Prima, nel dubbio, vado a lavarmi i denti. Torno che dorme. Ma non per finta. Dorme di brutto. Leggo fino alle cinque del mattino. Alle sei sento dei rumori molesti. Poi mi ricordo che insegna. E che alle sette e mezza esce di casa. Però questi rumori. Allora mi alzo, ma è tutto ok. Beve placidamente un intruglio e legge qualcosa su internet. Le chiedo, ma cos'è, ho sentito dei suoni. Mi dice: la mattina faccio i cinque tibetani. Io, che nata negli anni ottanta se mi dici cinque ti rispondo cereali, chiedo: cosa sono? Risposta: degli esercizi. Alle sette e mezza esce di casa. Io pure, ovviamente. Comodo, considerato che inizio alle dieci. Mi dice, ciao. E mi dà un bacino nonsense. Se ne va, in macchina. Mi ritrovo tra questi palazzi immensi che mi sembra di stare a Bucarest e non ho idea di dove cazzo sia la metropolitana e in giro non c'è nessuno. Nessuno. Attraverso i palazzi e mi ritrovo sempre nello stesso punto. Poi incrocio una vecchia con il cane che mi indica la strada e mi dice: è lontano eh, ma sei giovane. Mi incammino e a metà strada inizia a grandinare. Ma non una cosa normale, palle da baseball. E lì, capisco. L'amore è finito.

FASE 7
Vado in ufficio, ma sono serena. L'amore è finito. Conto tutti i mesi che ho perso, ma poi penso: bè in fondo che avevo da fare? E così un pomeriggio una ragazza molto più bella di F. si innamora di me. Viviamo felici e contente due settimane. Il resto è dramma.

FASE 8
Come sempre.