lunedì 24 dicembre 2012

Lettera di Natale.

Caro Babbo Natale,
stasera sono ventitre anni esatti che so che non esisti. È successo la vigilia del 1989. Volevo assolutamente sapere cosa mi avresti portato, così mio fratello, ragazzo pragmatico e integerrimo, ha aperto l'armadio dei nostri genitori e ha detto: guarda. E non era nemmeno la cosa che volevo, perché avevo richiesto un cagnolino e mi è arrivato un mangiacassette Bontempi che faceva anche i versi degli animali, tra cui il cane. Capito che beffa? La figlia di nessuno. Comunque sempre meglio dell'anno prima. Lì, mi aveva fatto credere che al cento per cento sarebbe arrivato il mio cagnolino. Come lo vorresti? E io dicevo uno qualunque, uno qualunque, anche uno piccolino e me lo faceva scegliere dall'atlante dei cani. Invece arrivò il castello dei Lego, adatto a bambini dagli otto anni in su. Ho passato tutto il Natale a masticare pezzi di torre, nella speranza che qualcuno si accorgesse che avrei potuto soffocare. Ma anche lì, nulla. Da quando ho scoperto che non esisti sto meglio. A un certo punto avevo iniziato a pensare che i cani ti stessero antipatici e la cosa mi faceva venire da piangere. Di fatto piangevo, accoccolata sotto l'albero, perché sono stata una bambina molto triste. Da quando ho scoperto che non esisti, ho iniziato a chiedere soldi e così, a sette anni, già impugnavo la mia busta piena di lire, congetturando cose, facendo calcoli su ciò che avrei comprato. Amavo contare i miei denari la mattina di Natale e pensavo a quei poveretti dei miei compagni di classe, che ancora passavano il loro tempo a scrivere letterine e chiedere Cantatu. E quando a scuola ci facevano scrivere la letterina per Babbo Natale io ero tranquilla, perché conoscevo la verità, e allora mi buttavo su massimi sistemi tipo la pace in Jugoslavia o l'evergreen dei bambini poveri con le mosche sulla faccia. Tanto io non avevo nulla da guadagnare e un po' di cibo per loro o una protesi a una gamba non mi avrebbe privato della mia busta colma di denaro. Insomma, non esisti. Ma nemmeno Saffo aveva i baffi esiste, cioè, c'è ma non c'è, e allora penso che se due entità che non esistono si scrivano, qualcosa debba accadere per forza. Allora accogli questa lettera invisibile. Caro Babbo Natale, io quest'anno vorrei un po' di culo. Vorrei che le cose iniziassero a funzionarmi tutte, come davvero succede a certe persone. Perché le persone fortunate esistono! È inutile che continuiamo con sta storia che la gente sta tutta male, non è vero. Il prossimo anno voglio che giri per me. Quest'anno ho perso la mamma, il lavoro e diversi treni, di quelli che però ripassano dopo mezz'ora. Due ombrelli, le chiavi e un racconto che avevo scritto tempo fa e che mi pareva molto bello. Non c'è più, da nessuna parte. Si chiama Zia Claudia, per favore, fammelo ritrovare. No, non è nemmeno nell'hard disk, no, nemmeno tra i documenti. È sparito, ma tu che non esisti so che puoi. Poi vorrei farmi un viaggio, un viaggio bello però, non quei surrogati di ponte o cose così. Voglio un viaggio avventuroso e pieno di suspance, nel caso sono disposta anche a prendermi la malaria, purché la si curi in tempo. E poi vorrei stare tranquilla: amare chi mi ama, riuscire a respirare bene anche senza le goccine, fare cose normali ed essere felice di farle. Vorrei non pensare alla morte ogni giorno, mia o di altri. E vorrei non avere la tonsillite. Vorrei che ogni giorno fosse magari non bellissimo, però soddisfacente, cioè non tanto soddisfacente, leggero. Vorrei sentirmi leggera senza la scimmia della solitudine, dell'ansia, dei libri che dovrei leggere, delle cose che vorrei scrivere. Vorrei che qualche problema si trasformasse in soluzione, e qualche soluzione in problema, perché tanto comunque in quel caso la soluzione la conoscerei e tutto si risolverebbe come niente fosse. Geniale, no? E poi vorrei capire se la mia vita ha un senso e se sì quale: so che non è un problema da niente e che in tanti ci sono morti, ma insomma, almeno un indizio, un segno, non so vedi tu. E poi vorrei che tutte le persone iniziassero ad avere la mia stessa ironia, soprattutto per quanto riguarda le battute su chi soffre. E vorrei non aver paura di niente, e vorrei imparare a cucinare qualcosa di decente, e vorrei imparare anche eventualmente a stirare. O comunque vorrei trovare una filippina a buon prezzo, onesta e magari di bell'aspetto. Che comunque han bisogno di lavorare. E poi vorrei che al cinema dessero solo film bellissimi, guardarli tutti e sentirmi sempre come dopo Tutto su mia madre o le storie di Kaurismaki che per me sono imprescindibili. E poi vorrei provare delle emozioni: tipo commuovermi o piangere per la felicità, che è una cosa che secondo me funziona solo alle olimpiadi. E allora vorrei partecipare alle olimpiadi, ma questa temo sia l'unica cosa veramente impossibile. Basta, ho finito. Ricapitolando: toglimi tutto questo peso che ho addosso e fallo in fretta, per favore. E tu invece cosa vuoi? Dai, scherzo, inculati. Ci sentiamo l'anno prossimo.
S.

domenica 23 dicembre 2012

Il mio primo amore erano tre.

Il Natale mi trova da sempre in uno stato di felice indifferenza. L'unica cosa che lo rende degno di nota sono i miei parenti, perché ho una famiglia molto numerosa e piena di freak, quindi, a suo modo, bella. Da sempre tutta questa gente fondamentalmente sconosciuta, ma con i miei stessi geni, mi è di grande ispirazione. Da qualche anno poi nessuno mi chiede più del mio fidanzato. Qualcuno deve aver cantato, forse la mia incapacità di accavallare le gambe. All'inizio trovavo molto imbarazzante tutta la situazione, poi li ho guardati bene e ho capito di essere una di quelle a cui comunque la vita aveva dato di più. Sono sicura che sia stata mia madre a cantare, in ogni caso. 

Ricordo che c'era una cosa per cui lei non si dava pace, riguardo la mia omosessualità. Credeva, come molti genitori, di aver sbagliato qualcosa con me: ma cosa? Io le rispondevo che aveva sbagliato tutto, ma che sarei stata lesbica in ogni caso. Se avessi saputo che non ci sarebbe stata più così presto, avrei risposto diversamente, ma un'amica recentemente mi ha detto che i sensi di colpa postumi sono inevitabili, quindi eccomi qui. Insieme alla sua malattia, sono cadute molte inibizioni, anche il tabù dell'omosessualità, ma non la sua inquietudine a riguardo. Un giorno, in ospedale, mi disse: eppure nella nostra famiglia non c'è nessun altro, tentando di esplorare goffamente il fattore ereditario. E mi chiese anche: ma ci si nascerà o ci si diventa? Quesiti enormi e senza risposta. Immagino che in questo momento, ovunque sia, avrà una visione più distaccata della questione.

C'è una storia che forse l'avrebbe tranquillizzata e sollevata da qualche senso di colpa (una famiglia piena di sensi di colpa, la mia), che non ho fatto in tempo a raccontare, ma che penso sia tanto illuminante quanto assurda. Io mi sono innamorata per la prima volta di una bambina a quattro anni. E non era una, erano tre gemelle, due delle quali omozigoti, la terza molto diversa e per questo per nulla felice. Erano mie compagne di asilo, le chiameremo C., V., B. Avevo trascorso il primo anno di scuola materna pisciandomi addosso, perché dei bulli della classe accanto mi facevano le poste fuori dal bagno. Dio li maledica per sempre, me li ricordo come fosse ieri. Poi è successo che il secondo anno di asilo non mi sentivo più la stagista della situazione e ho adottato un certo savoir faire, nonostante le scarpe con gli strappi indicassero chiaramente un mio deficit, ovvero il non sapermi allacciare le stringhe. In più rifiutavo categoricamente il grembiulino rosa e quel secondo anno si aprì felice, con un grembiule giallo canarino. I bulli erano andati a morire in prima elementare. Insomma, stava cominciando per me un grandissimo momento. A me piaceva molto V., che era identica a C., ma comunque mi piaceva V., perché erano uguali ma diverse. Riesco a vedere distintamente il pomeriggio in cui dichiarai il mio amore. È stato dopo ginnastica perché addosso non avevo l'amato grembiulino, ma una tuta del wwf, verde con un grande panda sulla pancia (dove l'avevano presa? Perché?). 

È successo sotto un albero grande, che ora mi sembrerebbe molto meno grande. Era un pino e gli aghetti ci pungevano il sedere. È una delle poche cose che ricordo della mia infanzia. Le ho detto vuoi essere la mia fidanzata? E lei mi ha spezzato il cuore dicendomi che i principi erano maschi. Col senno di poi avrei potuto rispondere che non avevo mai  accennato a un principato, ma fa nulla. Sono corsa via a giocare a spadaccini con le foglie. Però non mi sono data vinta, perché c'era C. che comunque, ragazzi, era identica. Così mi sono fatta avanti anche con lei. Non ricordo distintamente la situazione, ricordo che però la cosa uscì con la maestra, che era anche una suora, e che mi disse che i bambini stavano con le bambine e le bambine con i bambini e mi regalò qualcosa come un mandarino. Maledetta troia. La cosa buttava male, anche perché per conquistare la seconda le avevo regalato un mio bellissimo Polly Pocket, quello a conchiglia azzurrino, che a piano terra aveva un laghetto con ponteggio, di cui ho trovato una foto per caso su google, e se la guardo piango (magari è proprio il mio). Cosa dovevo fare? Sono andata da B., che però era tanto diversa da V. e C., perché era cicciotta e aveva i capelli più scuri e un caschetto francamente imbarazzante. Mi disse di sì senza problemi: era sola e disperata, uguale e diversa allo stesso tempo e abituata agli scarti delle sorelle più fighe. E tra quegli scarti c'ero anche io.

È stata una storia intensa, ma tormentata. La prima di una lunga serie. È stata bella soprattutto per lei, che voleva ogni giorno anche il mio pranzo, la mia mela, i miei dolcini e diventava sempre più grassa, mentre io, che già ero secca, deperivo. Mia madre mi pesava ogni tre giorni, finché non le ho raccontato tutto. Cioè, dentro di me capivo che c'era qualcosa di strano nella situazione, allora le dissi semplicemente che una bambina grassa mi rubava il cibo e i giocattoli. Sono stata vigliacca, lo so. Ma a lei comunque non era mai fregato niente di me, ero io la parte lesa. Ci siamo separate bruscamente, a pranzo mi hanno messo con altri bambini e ho imparato ad allacciarmi le stringhe con il metodo orecchie di coniglio, che era stimatissimo. 

Questa vicenda mi ha insegnato molto. Un giorno B. l'ho incontrata per strada. L'ho riconosciuta subito. È dimagrita.


venerdì 21 dicembre 2012

La miglior risposta di 4 anni fa.

Quando ero molto giovane e muovevo i primi passi nel complicatissimo mondo lesbico, due erano gli ostacoli che mi sembravano insormontabili: come faccio a capire se una ragazza è lesbica? Come faccio a mostrare a una ragazza di essere lesbica? La questione era delicata, perché si trattava dello stesso dramma da due punti di vista chiaramente opposti. Sono passati diversi anni da quei terribili quesiti (che comunque non hanno mai avuto risposta), ma il tema è davvero un evergreen.

Qualche tempo fa, a una festa, mi si avvicinò una giovane lesbica, amica di un'amica del tutto eterosessuale. Mi disse che il mio blog le piaceva molto, io nel mentre svuotavo il primo gin lemon, già chiaramente alterata, perché mi basta davvero poco. Vivo costantemente in uno stato che appare karmico, ma in realtà è febbrile, e che l'alcol smaschera in un modo che definirei sfacciato. E quindi mi ritrovo con questa giovane lesbica, anche carina, che mi dice, sai, mi sono scoperta lesbica da poco, ma secondo te come faccio a capire se un'altra lo è? Mi sono commossa: una domanda del genere ai tempi di internet. È stata così dolce e anacronistica che avrei davvero voluto risponderle qualcosa che potesse esserle utile, invece poi abbiamo parlato della Vita dell'Alfieri, che stava preparando per un esame. Che vita, no?

Però poi ci ho pensato, e ho pensato anche che anni fa la questione del gay radar andava tantissimo. A me il termine ha sempre fatto orrore: mi ricorda certi insetti, certe antenne brutte che captano e poi corrono verso questa meta precisa, confermata dall'istinto, mi ricorda gli scarafaggi, che sono l'unica cosa che temo davvero nella vita. Io questo radar, per esempio, non ce l'ho mai avuto e alla fine un po' mi rode, per questo lo condanno e lo associo a quelle terribili creature del buio. Mi è sempre toccato andare a caso, saltare da un ramo all'altro come una bertuccia nevrotica, sperando che qualcuno, una a caso, mi dicesse: ok, per me si può fare, indipendentemente dal suo certificato di lesbismo.

Ho anche cercato di affidarmi a certe dicerie, tipo quella dell'anello sul pollice. E pure a quella dell'indice e dell'anulare, che se l'anulare è più lungo dell'indice è lesbica al cento per cento. Come no. E allora via, serate intere a guardare mani e pensare che faccio, mi muovo? Come mi muovo? Un incubo. Insomma, la ragazzina della Vita dell'Alfieri era preoccupata, perché temeva di rimanere sola per sempre, per via di questa scarsa attitudine al riconoscimento. E io sono stata inutile e poco concreta come mi spesso accadde. Ma questa sera voglio riscattarmi, e ho deciso di dedicare del tempo alla ricerca. 

Io penso che davanti a cose del genere, non si possa che rimanere in un silenzio rispettoso.

martedì 18 dicembre 2012

5+5

Sono giorni molto difficili. Non voglio nemmeno spiegare perché. Ma sono molto difficili. Se provo a dormire, mi prende una tosse convulsa, tipo Violetta nella Traviata. Con la differenza che non sono una puttana e soprattutto non sono a Parigi. Più la seconda che la prima. Se non provo a dormire, tento di leggere, ma non ce la faccio, perché o mi rompo le palle, o mi rode che quella cosa non l'abbia scritta io. Se metto la musica sveglio i vicini. E le cuffiette non mi vanno. In tutto questo, da tre giorni a questa parte, il papa dice che sono una minaccia per la pace. Io.

Allora ho pensato: scrivo un post, almeno glasso un po' l'ego e poi buonanotte a tutti. Avrei una serie di argomenti in sospeso, per esempio la mediocrità di Carmen Consoli, l'estinzione del concetto di gay radar e il dress code lesbico, ma sono davvero troppo impegnati. In più, domani, la gente passerà la giornata a condividere video di Benigni, e questo no, non posso sopportarlo. C'è bisogno di leggerezza. Così stilerò una semplice classifica del perché le donne mi piacciono e del perché no.

Le donne mi piacciono perché:

1. Sono mammiferi. Possono fare bambini, ma anche non farli. Quasi sempre a loro discrezione, almeno nel mondo occidentale. Questo significa che da una donna possono nascere un uomo oppure un'altra donna, quasi sempre infelici, ma ogni tanto capita di no. Se le donne sono mammiferi allattano, quindi hanno le tette. Che secondo me, insieme ai lobi delle orecchie sono la più immensa creazione di tutti i tempi. Vai a sapere perché: ho sicuramente dell'irrisolto.

2. Vanno nel panico, ma spesso è un panico del tutto apparente. Nel senso che hanno appena iniziato a piangere e già studiano una soluzione, sempre che non l'abbiano già trovata. È una cosa miracolosa e ancora più miracoloso è il fatto che lascino credere agli uomini di avere enormi qualità nel problem solving.

3. Si vedono sempre imperfette.

4. Hanno una dolcezza intrinseca, anche le peggiori. 

5. Potenzialmente sono tutte accessibili. Il che per noi lesbiche è una grande cosa, a differenza dei fratelli gay, che devono vedersela ogni volta con: machismo, virilità ostentate e patetiche, istinti animali che noi abbiamo lasciato nella caverna di fianco alla pentola dei legumi, tanti tanti secoli fa. Se sei un ragazzino e ti piace un ragazzino, è un problema. Se sei una ragazzina e ti piace una ragazzina, puoi dissimularlo in moltissimi modi. Le bambine crescono tenendosi per mano, dandosi bacini e scambiandosi i leccalecca. Non ci sono barriere reali tra donne. Durante l'adolescenza ci si trucca e ci si vede nude. Poi a vent'anni non vuoi fartela una scopata? Basta essere strategiche. Io sono cresciuta senza tenere nessuno per mano, senza dare bacini, senza mangiare leccalecca, senza truccarmi e senza mostrarmi nuda. Tutto questo ha mosso enorme curiosità, ed è il motivo per cui le donne sono arrivate comunque: non si sentivano abbastanza al centro dell'attenzione.


Le donne non mi piacciono perché:

1. Quando sono cretine, lo sono irrimediabilmente.

2. Tendono a rinfacciare qualunque cosa, a distanza di anni. 

3. Sanno ferire con grande precisione.

4. Tendenzialmente vogliono sempre stare appiccicate, il che per me significa anche solo darsi la mano una o due volte l'anno.

5. Prima o poi ti lasciano. O le lasci tu. Che alla fine sei una donna, oppure questo non sarebbe un blog lesbico. 

domenica 9 dicembre 2012

Sciroppo.

Questa sera sono malata, e mi sento sola. Oggi è stata una di quelle giornate in cui desidero morire, senza drammi o che. Semplicemente, voglio smettere di vivere. Ho da sempre grandi spinte alla morte, anche se con il tempo ho imparato a sdrammatizzare la cosa, tipo esasperando il tutto come se non fosse vero. In questo modo ho costruito un personaggio allo stesso tempo simpatico e macabro, ma la verità è che non sono né l'una né l'altra cosa. Semplicemente mi sento la morte addosso, come i negri la musica e Michael Jackson i bambini. 

È proprio così, da quando sono molto piccola. Certo la storia della mia famiglia ha facilitato il tutto, e anche l'atmosfera, respirata dai primi anni di vita. Il Natale, per esempio: vietato anche solo nominarlo, se non per dirne il peggio. In casa mia non è mai avvenuto uno scambio di regali. In questo modo non ho mai avuto ben chiaro il concetto di dono. Quando qualcuno mi regala qualcosa mi offendo, oppure mi intristisco molto, perché non ne colgo il motivo. E ovviamente non mi viene mai in mente di fare regali a nessuno. In questo modo le feste e i compleanni sono sempre giorni qualunque e questa è una delle cose che mi piacciono della mia vita. E che le mie fidanzate non hanno mai apprezzato.

Eppure non ho avuto una famiglia infelice. Forse un filo non convenzionale, ma con una parvenza di assoluta normalità. Che poi è il peggio del peggio. Quanto avrei desiderato quei genitori di sinistra che orbitavano attorno ad alcuni amici: belli, permissivi, aperti ad ogni diversità, tranne a quella di loro figlio. Non mi sono mai sentita figlia dei miei genitori e sorella di mio fratello. Mio fratello per farmi piangere mi diceva ehi, ti hanno adottata, noi non siamo la tua vera famiglia. Ma io non piangevo, anzi. Quando poi mia madre l'ha sentito e l'ha sgridato molto, io ho sofferto, perché ho capito che invece ero proprio figlia dei miei genitori e che non sarei mai partita per ritrovare quelli veri.

È questa totale mancanza di appartenenza a qualsiasi cosa, che mi destabilizza. Non passa mai, e con gli anni peggiora. Un tempo poteva dirsi una forma di ribellione adolescenziale. Poi l'alibi dell'età è scomparso, ma il problema no. Con il tempo però divento sempre più stanca e penso, devo sforzarmi un pochino, di appartenere a qualcosa. Ma a cosa? Vado al gruppo degli scacchi? Tristezza. Imparo per la trecentesima volta a suonare uno strumento qualsiasi? Depressione. Mi iscrivo al corso di mimo di quelli di Grock? Non mi piacciono le tutine attillate. Il cineforum? Il settantasette è passato da quasi trentasei anni. Gli aperitivi con i colleghi? Mi distruggono. 

E allora non mi resta altro che sopportare giornate come questa e tossire e bere a canna lo sciroppo, nella mia casa orgogliosamente priva di albero di Natale. Nella speranza che qualcuno possa capirmi, anche solo a distanza. Anzi, solo a distanza. Perché la tristezza degli altri è come la loro solitudine, va presa per com'è. Non va smorzata, non va placata. Va  guardata da lontano e le si deve fare ciao con la mano. Certo, qualcuno non capirà, ma chi capirà poi starà meglio.

La settimana prossima dovevo andare dal dentista per un controllo. Ma oggi ho saputo che qualche giorno fa è morto. È dunque così che va la vita.




giovedì 6 dicembre 2012

Un amore mai nato.


Stasera in treno mi sono seduta di fianco a una che ha detto: se mai avrò un figlio gli insegnerò da subito a mettersi a novanta. E: Turchia, ottimo rapporto qualità prezzo. Non c'entra niente con quello di cui volevo parlare, ma mi premeva. Ci sono cose che se non le tiri fuori poi è peggio, o almeno, con me funziona così. Per questo quando mi sono innamorata di F. gliel'ho detto. Anche se non era vero. Però sentivo che se non gliel'avessi detto non gliel'avrei detto. E allora gliel'ho detto. Ci ha creduto, ma non ci è stata.

Volevo parlare di questa cosa. Cioè di quando ci piace una persona che di noi non vuole saperne. Anzi no, non è corretto, perché la casistica è davvero immensa, quando si parla di amori mai nati. Comunque, vorrei fare un discorso sul non essere ricambiati, più genericamente. 

Prima, per non sentire quella del figlio a novanta, ho pensato a qualcosa che riuscisse a distrarmi. Generalmente i miei fallimenti riescono sempre ad astrarmi dal reale, perché l'imbarazzo si rinnova e attorno a me non c'è più niente. E allora ho pensato a F. e al nostro amore mai nato e al mio inusuale azzerbinamento. Penso che sia giunto il momento di rielaborare la cosa e poi abbandonarla per sempre. Non sarò breve.

La storia si divide in più fasi. Chi è stato uno zerbino (e prima o poi tocca a tutti), capirà.

FASE 1
Nel dicembre del 2010 mi accorgo che nella mia vita manca qualcosa. Passo in rassegna la libreria, e scopro che non è un libro. Cerco nei cassetti, tra le scarpe, e anche tra qualche maglietta che non metto da anni. Niente. Poi capisco: è l'amore.

FASE 2
Scorro brevemente le mie amicizie su facebook, ma non trovo nessuno che faccia al caso mio. Allora rovisto tra i numeri di telefono, con la foga di un clochard nei bidoni a colazione. E vedo F. E penso, ma chi è F.? E poi mi ricordo. È una tizia che mi piaceva tanto tempo prima, e anche io le piacevo! Mi guardo allo specchio e noto un decisivo miglioramento nella mia persona. Dalla mia ho: una buona cultura, una padronanza dell'italiano comunque oltre la media, capacità di problem solving (o almeno questo dice il cv che ho copiaincollato da un amico). Dalla mia non ho il fatto che: lavoro dieci ore al giorno per zero euro al mese, non so guidare, non ho mai imparato a suonare Smells like teen spirit alla chitarra.

FASE 3
Torno su facebook e la aggiungo. Poche ore dopo siamo amiche. Fa tutto lei, mi chiede come sto e dove fossi finita. Io non sono mai finita, cocca. Capisco che abbiamo due generi di ironia differenti: ovvero, lei non conosce ironia. Andando al sodo le chiedo se è fidanzata, ma solo per avvalorare la tesi per cui gli omosessuali sanno essere molto promiscui. Mi dice di sì, ma che non va bene, che non è felice. La sua mancanza di discrezione mi fa venire voglia di aprire il gas, tuttavia continuo imperterrita nel mio scopo. Le chiedo: ci vediamo? Mi dice: non lo so. Le chiedo: ci vediamo? Mi dice: sì.

FASE 4
Dove ci vediamo? Mi risponde: da me, perché non ho tempo. Bene. Le dico, dove stai? Mi dice: scendi a San Leonardo. Le dico: ma dov'è? Mi risponde: sulla rossa, non è lontano. E così il primo sabato utile (cioè il giorno seguente), vado. Sono 18 fermate da loreto, il mio viaggio più lungo di sempre in metropolitana. Nel tragitto riesco a leggere otto racconti di Kafka. Scendo e mi sento confusa. Emergo dalle viscere della terra e mi ritrovo nel nulla. Mi arriva un messaggio. No, dai, vediamoci qui. E mi suggerisce la fermata prima. Riscendo in metro. Alla fine ci dobbiamo bere sto caffè in un centro commerciale. A me i centri commerciali fanno venire attacchi d'ansia, in più è poco dopo Natale. Mi dice: abbiamo un'ora. Cinquanta minuti li passiamo in fila in posta. Cinque a comprare una confezione di latte di soia. Poi il caffè: dei cinque minuti rimasti ne passa tre al telefono con la sua ragazza. Si accordano per una cena. Mi dice: mi ha fatto piacere vederti. Ci metto due ore a tornare a casa. E spero che un pazzo di quelli che finiscono su corriere.it mi butti sotto il treno.

FASE 5
Non demordo. Passano alcuni giorni. Mi scrive, le rispondo. Le scrivo, mi risponde. Mi invita a pranzo. Riattraverso la città, ancora una volta. Il desco: una pizza surgelata in due. La mia metà è ancora congelata. Mastico tutto il resto del pomeriggio, in ospedale, davanti a flebo e persone tristi.  Mi scrive, le rispondo. Le scrivo, mi risponde. Ci vediamo altre volte: sempre uguale. Anzi, ogni volta è peggio. Un giorno mi dice: ti ricordi tanti anni fa quando ti volevo e tu no? Ero fidanzata, dico, ma non mi ricordo con chi. Guardo i suoi libri. Sciamanesimo, scintoismo, iching, jodorowski, Hillman, cazziemazzi. Chiedo: non hai nemmeno un romanzo? Ma cambio discorso perché ho paura che tiri fuori l'Allende. Poi mi fa tutto un discorso sul fatto che comunque lei ha bisogno di attenzioni e che la sua ragazza la trascura. Cose tipo corteggiamento, tipo. Io allora mi butto in questa logica perversa di mandarle ogni mattina qualcosa di bello. Tipo pezzi di film. Ma belli veri eh. Chiedo anche in giro. Procedo, per settimane. Poi diventano troppi, e devo iniziare a segnarmeli per non ripetermi. Ho una moleskine piena a metà di questi cazzo di film. Allorché mi dichiaro. Lei dice: anche tu mi piaci. Io rispondo: e? Lei risponde: niente.

FASE 6
Ho raggiunto un rimborso spese e grossa dei miei quattrocento euro mensili le compro un libro che non leggerà. Nel mentre è arrivata la primavera. Mi dice: dovresti metterti cose più colorate. Vado da Zara e compro un paio di pantaloni verde lega. Mi dice: staresti bene senza occhiali: compro le lenti a contatto, una cosa che reputo amorale. Poi ci vediamo una sera, al parco. Arrivano le zanzare. Dice: sono arrivate le zanzare, andiamo da un'altra parte. Si fa offrire un gelato, poi se ne va. Allora io, presa dallo sconforto in ordine mangio: un big mac menu, una confezione di gallette di mais, due muffin. Ci risentiamo. Parlo a un amico di questa situazione, lui mi dice che è chiaramente un'idiozia, di lasciar perdere. Ma è una questione di principio. Nel mentre, è vero, ho delle storielle irrilevanti, perché comunque il mio cuore è per F. Poi il miracolo: una sera mi invita a vedere un film. Poi rimani anche a dormire, se vuoi. Ok. Guardiamo La bussola d'oro. No dico, La bussola d'oro. Dopo i Godard, i Lang, i piacionissimi Truffaut e un paio di raffinati stralci di Marco Ferreri, che ad oggi temo abbia sempre confuso con quello che ha inventato la Nutella. Finisce il film e mi dice, vai a letto, dormo sul divano. È prestissimo e io generalmente non dormo mai prima delle due a.m. Per la notte ha una mise deliziosa: è vestita da ragazza della pallacanestro. È bellissima. Allora penso: è il momento, la bacio. Prima, nel dubbio, vado a lavarmi i denti. Torno che dorme. Ma non per finta. Dorme di brutto. Leggo fino alle cinque del mattino. Alle sei sento dei rumori molesti. Poi mi ricordo che insegna. E che alle sette e mezza esce di casa. Però questi rumori. Allora mi alzo, ma è tutto ok. Beve placidamente un intruglio e legge qualcosa su internet. Le chiedo, ma cos'è, ho sentito dei suoni. Mi dice: la mattina faccio i cinque tibetani. Io, che nata negli anni ottanta se mi dici cinque ti rispondo cereali, chiedo: cosa sono? Risposta: degli esercizi. Alle sette e mezza esce di casa. Io pure, ovviamente. Comodo, considerato che inizio alle dieci. Mi dice, ciao. E mi dà un bacino nonsense. Se ne va, in macchina. Mi ritrovo tra questi palazzi immensi che mi sembra di stare a Bucarest e non ho idea di dove cazzo sia la metropolitana e in giro non c'è nessuno. Nessuno. Attraverso i palazzi e mi ritrovo sempre nello stesso punto. Poi incrocio una vecchia con il cane che mi indica la strada e mi dice: è lontano eh, ma sei giovane. Mi incammino e a metà strada inizia a grandinare. Ma non una cosa normale, palle da baseball. E lì, capisco. L'amore è finito.

FASE 7
Vado in ufficio, ma sono serena. L'amore è finito. Conto tutti i mesi che ho perso, ma poi penso: bè in fondo che avevo da fare? E così un pomeriggio una ragazza molto più bella di F. si innamora di me. Viviamo felici e contente due settimane. Il resto è dramma.

FASE 8
Come sempre.



domenica 25 novembre 2012

cinque mesi.

Sono tanti mesi che non passo di qui, quasi cinque. Ogni tanto avrei voluto scrivere, ma sentivo di non avere abbastanza ordine per farlo. O forse respiro. Sì, più respiro che ordine. Allora mi ci metto questa mattina, nella mia mise di lesbica media: pantaloni adidas e felpa burton, pur non essendo né sportiva né skater. E piedi nudi, un must di sempre. E penso, ma cosa posso scrivere? Sono stati cinque mesi intensi.

Partirò dai cedri del libano. Davanti a casa mia c'erano questi due cedri del libano, che praticamente sono due grossi alberi che somigliano ai pini e non fanno assolutamente cedri. Io so che si chiamano così, perché mia madre citava sempre i cedri del libano, quando nevicava. Diceva, vieni a vedere i cedri del libano come sono belli, con la neve. Io ero sempre molto presa dalle mie attività per scomodarmi e andare a guardare le piante. E poi il binomio libano neve mi destabilizzava. Soprattutto da bambina. Pensavo che il libano fosse assolato e pieno di spiagge e quindi di palme e non di pini, e che neve poi? Sembrava la solita sparata come quelle che usava per farmi mangiare o per convincermi ad addormentarmi. Cedri del libano, ma scherziamo?

Ad agosto ho perso mia madre. Ero in vacanza in un mare senza cedri. Dentro di me sapevo che sarebbe successo mentre ero lontana, anche se i medici dicevano che ci sarebbe voluto molto più tempo. Ma ci sono un sacco di cose che la medicina non riesce a spiegare: per esempio la certezza che si stia salutando una persona per l'ultima volta. Quando ho chiuso la mia borsa e passato in rassegna l'arsenale di medicine che porto con me ogni volta che mi sposto alimentando l'ansia che mi attanaglia praticamente da quando sono nata, ci siamo salutate. Non so se avete mai avuto a che fare con persone sotto morfina, ma non è facile salutarle. Invece quella mattina è stato diverso. Mi ha guardata e mi ha detto un ciao che non sentivo da tanto tempo. E così ho capito che non ci saremmo viste mai più. Avrei potuto rimanere, ma sono andata. Se non fossi partita non mi avrebbe mai salutato così bene.

Ho pensato molto, in questi mesi, a quale verbo si addica meglio a una persona che muore. E non è morire. Perdere mi sembra quello più appropriato. Per tanti motivi. Se una persona muore, non vuol dire niente. Se ci lascia, nemmeno, perché non è che ci lascia propriamente. Che non ci sia più? Ma per favore, è pieno di gente viva che non c'è mai. Ecco, perdere per me è appropriato. Significa che se la cerco, non la trovo. Se la chiamo non risponde. Insomma, l'ho persa, che devo fare. Lascia anche un certo spiraglio di speranza, a suo modo, anche se generalmente non ho mai ritrovato quello che avevo perso, a parte un mazzo di chiavi una volta, ma mio padre aveva già cambiato tutte le serrature e non sono servite più a niente. Ho tenuto il portachiavi però. 

Insomma, è successo che una sera di qualche giorno fa, torno a casa e i cedri del libano non ci sono più, ok? Io che mi ero negli anni appassionata a questa storia di quanto fossero belli con la neve. Li hanno tagliati per costruire una rotonda. Fondamentalmente li hanno uccisi per togliere tre semafori. A quanto pare è un mondo così, spero che i Maya ci facciano tanto tanto male. Torno a casa e non trovo i due cedri del libano che erano lì da sempre. Mi sono sentita molto sola, e dispiaciuta per mia madre, perché lei si sarebbe molto indignata e forse avrebbe mandato un'utopica mail al municipio. Come quando levarono cinque insignificanti minipini dietro casa, per farci un parcheggio. Ma era una cosa irrisoria. I cedri del libano invece erano maestosi cazzo, tutta un'altra faccenda. Quest'anno nevicherà sul cantiere della nuova rotonda, ma la viabilità sarà migliore eh. 

Mi è dispiaciuto tanto per lei, perché quando si muore non ci si può più lamentare e nemmeno far sentire. Quando si muore non si ha più diritto a niente, nemmeno a farsi trovare. Ma forse è bellissimo e si sta meglio proprio per questo, e ci sono tutti i cedri del libano che desideriamo. Noi conosciamo solo la morte da vivi, dopotutto. 

Hanno tagliato i cedri, ma le radici sono rimaste. Per forza, e chissà per quanti metri, sotto terra. Stanno lì, nodose e incazzate sotto il cemento. Come le mie, di radici, del resto.

martedì 3 luglio 2012

Diversi.

Tra i tanti modi in cui vengono chiamati gli omosessuali (di recente, ho scoperto per le lesbiche l'aulico epiteto leccamoquette) ce n'è uno che mi ha sempre fatto riflettere. Perché penso che le parole abbiano un valore sacro e nessuna è mai lì per caso, nemmeno quando sembrano dette a vanvera. Le parole sono una delle poche cose belle che esistano, in generale, e io le amo e le conosco fin da bambina, quando passavo ore in cucina a scriverne a caso e tentare di comporre anagrammi senza mai riuscirci. 


Diverso, è sempre stato un soprannome interessante. Innanzitutto perché è estremamente sprezzante. Poi perché in sole sette lettere riesce a condensare tutta l'ignoranza di chi lo pronuncia. E poi perché è vero, in un certo senso. Quando penso a me in quanto essere vivente con due braccia, due gambe, un cervello e tutto il resto, mi sento del tutto uguale agli altri esseri viventi (salvo il cervello, che comunque se la cava oltre la media). Quando penso a me in quanto donna omosessuale, non ritengo che definirmi diversa sia qualcosa di sbagliato. L'importante però è che lo dica io, e non un coglione che passa per la strada.


Diversa da chi? Io parlerei piuttosto del diversa perché. E qui mi spiego, ma ci metterò poco, perché è davvero elementare. Un omosessuale è diverso perché arriva un momento in cui deve spiegarsi, o meglio, giustificarsi. Il coming out non è solo una presa di coscienza, non è  necessariamente qualcosa di giusto verso se stessi, è soprattutto una forma di giustificazione. E di affermazione. Che poi non sono concetti tanto distanti. Quando a diciassette anni l'ho detto a mia madre, io mi stavo giustificando. Non le avrei mai detto: ehi mamma guardami, sono un essere umano. Oppure, mà, hai visto come sono caucasica? Oppure, mamma, penso sia giunto il momento di renderti partecipe del fatto che ho una predisposizione maggiore verso le materie umanistiche e no, non frequenterò mai ingegneria. Ho fatto coming out perché sentivo il bisogno di raccontare a qualcuno (non uno qualsiasi), cosa fossi, tra le altre cose. Ho sentito l'esigenza di affermare qualcosa che mi ha preso un giorno a caso e non mi mollerà più per tutta la vita. Qualcosa che per me è del tutto naturale, ma che in fin dei conti, lo sarà veramente sempre e solo per un omosessuale.


Quando ho fatto coming out la reazione di mia madre è stata più o meno tragica. Molte lacrime, per esempio. Ricordo di averle detto di non raccontarlo a nessuno, e due ore dopo lo sapevano anche mio padre e mio fratello. Per loro non è stato traumatico. Sarà che per un padre la preoccupazione cardine è che la propria figlia non venga messa incinta da un cretino (oppure non venga messa incita e basta. Mai.). Quando ho fatto coming out credevo di liberarmi di un peso e invece mi sono versata in testa una colata di cemento. Così va la vita. Eppure, se ci penso bene, so perché l'ho fatto, nonostante fossi così giovane. Perché ero innamorata, e volevo rendere partecipi tutti di questa cosa. Anche mia madre, anzi, forse proprio lei per prima. Perché nonostante non siamo mai andate troppo d'accordo c'è e ci sarà sempre qualcosa che mi tiene legata a lei, ovvero quel cordone ombelicale che mi hanno levato due minuti dopo essere nata e che però non è mai stato tagliato. Quello schifoso e insanguinato devono averlo buttato da qualche parte, ma in quel momento se ne è creato uno metafisico, invisibile, che non potrà mai recidere nessuno. Nemmeno un paio di forbici immaginarie.


Quando ho fatto coming out, a nessuno è fregato che io fossi innamorata. Erano tutti troppo preoccupati a pensare alla loro reazione, e al mio futuro. E per cosa? Io sono cresciuta lo stesso, e loro sono invecchiati. Sarebbe successo anche se fossi stata etero. Da quel giorno per me tutto è cambiato, forse in peggio, ma qualcosa si è mosso. E quando qualcosa si muove, va sempre bene. Perché significa che ci siamo, e siamo vivi, e possiamo amare, essere amati, smettere di amare e tornare a farlo. Quando ci va.


Questo post è per un'amica, che sono felice sia diversa, proprio come me. E poi è per tutte quelle persone che hanno il coraggio di non nascondere quello che amano. Ed è anche per tutte quelle persone che invece non ce l'hanno.

domenica 24 giugno 2012

Social?

Sono una persona mediamente tollerante. Conosco bene i miei limiti e i miei deficit comportamentali e psicologici e anche le mie debolezze. Sono delle grandi potenzialità, se si imparano a gestire, perché niente è più interessante di un disagio quando è ben convogliato da qualche parte. Potrebbe essere una fonte di energia alternativa. Ma tu hai una macchina a disagio? Ma com'è ti trovi bene? Distributori? Ovunque. 


Mi piacciono le persone che soffrono, ne sono attratta istintivamente e senza alcuno spirito da crocerossina. Tanto per farvi capire, il mio approccio non sarebbe "Posso aiutarti?", ma "Ti va di affondare insieme?". E così, sono sempre qui, e non che stia bene, chiaro. Sono una persona mediamente tollerante: non mi dà fastidio chi mastica rumorosamente, non odio chi tira su col naso, e chi ascolta la musica troppo alta con l'ipod mi fa tenerezza, perché perderà l'udito. Non mi irrita chi legge Moccia, non mi va di sparare a chi guarda La5, mi stanno benissimo i vegani fondamentalisti. Tanto finiremo tutti uguali e allora aver odiato, o anche solo aver provato fastidio, ci sembrerà uno dei molti modi in cui abbiamo lasciato che la nostra vita si consumasse. Io non odio niente e nessuno, ma c'è una categoria di persone che non sopporto: quelle che la mattina, sui mezzi, guardano facebook sul telefono.


Ora, chiaro che non sono affari miei, ma chiaro anche che in un certo senso lo sono. Cominciare la giornata facendo incetta di stronzate è il miglior modo, per esempio, per investire qualcuno successivamente. Oppure fare una carneficina. Oppure dire cose mediocri. Oppure irritarsi per la fila al supermercato. E allora, se rimango coinvolta anche solo in una di queste attività, inevitabilmente c'entro anche io. Pertanto ho il diritto di oppormi all'ora di facebook mattutina via smartphone. Mi fanno una pena infinita quelli che hanno un telefono come il mio, per esempio, che ci mette venticinque minuti per caricare una pagina. Stanno lì, lo scuotono, sbuffano e arrancano, finché un riflesso blu non ingombra le lenti dei loro Wayfarer. E allora si rilassano, come quando sei in un luogo in cui non troverai mai un accendino e nessuno attorno a te fuma e lo cerchi e stava in fondo alla borsa. Salvo, ma chissà ancora per quanto.


C'è una tizia, in particolare che prende sempre il mio treno, quel tipo di donna che qualcuno che conosco non esiterebbe a definire una milfona. Ecco, lei si siede in uno di quei posti vicino alla presa della corrente, nel caso l'iphone dovesse scaricarsi. Arriva presto apposta, non so che dire, è così. E poi va su facebook. E sorride. Ogni due minuti, sorride. E io dietro al mio libro mi chiedo che cazzo ci sia da sorridere, e penso, ma quando sto su facebook io sorrido? E mi pare proprio di no. E mi chiedo anche perché devo fare tutta sta fatica a leggere e studiare e capire e andare avanti e superare quello che è il mio lavoro, quando nessuno me lo richiede, mentre un giorno uno qualunque di questi tizi potrebbe arrivare e presentarsi come il mio nuovo capo.


Questa è l'unica vera pecca che riconosco ai social network, che tanto utili risultano sotto altri punti di vista: l'appiattimento. L'assenza di pensiero. Anzi, il provocare riflessioni troppo brevi e interrotte per essere tali. La facilità. Il capire tutto immediatamente. La completa assenza di ricerca e, quindi, di introspezione. L'eccessiva autoreferenzialità, quando niente si ha da raccontare. L'esistere per il solo fatto di avere un profilo. Gli stravolgimenti verbali che hanno provocato, per cui diario è quel diario e pagina è quella pagina e perfino amico sta diventando quell'amico e profilo non è più una persona vista di lato. E l'impossibilità di uscire da tutto questo, almeno per ora. E l'essere tutti alla portata di tutti. Prima di facebook non conoscevo tanta stupidità, perché non era quello che mi ero costruita attorno. E ora la subisco, come il passato di verdura a quattro anni. 


Finché un giorno non mi sembrerà qualcosa di assolutamente normale, e arriveranno cose ben peggiori, tipo i capperi. 


E avanti così, o forse no?



domenica 3 giugno 2012

Pride.

Ho visto il mio primo gay pride a tredici anni. I miei mi avevano spedita in una di quelle vacanze dove la mattina vai a scuola a far finta di imparare l'inglese. Insomma, stavo a Brighton e c'era il sole e io non ero ancora una persona. Oltre a non avere un vero e proprio orientamento sessuale, ero priva di qualunque tipo di orientamento, tant'è che mi ero persa. E vagando alla ricerca di qualcuno che potesse riportarmi da dove ero venuta mi sono imbattuta prima in due Catwoman e poi in Batman e Robin. Questi due limonavano felici in un'aiuola, come non ci fosse un domani. Pur non essendo più in fasce, non mi ero mai minimamente posta la questione dell'omosessualità. In quella fase della mia esistenza mi guardavo spessissimo allo specchio chiedendomi da dove cazzo fossi venuta, ma soprattutto dove sarei andata, finché non mi pigliava un attacco d'ansia (che allora non interpretavo come tale, ma come un calo di zuccheri) e mia madre veniva a portarmi via. Mi piazzava davanti alla televisione. Dio solo sa quanto mi è stata utile la televisione.

Qualche anno dopo ho partecipato al mio primo gay pride. Sapevo di essere lesbica, ma non mi importava troppo. Il lesbismo per me era ancora qualcosa di completamente teorico, pur essendo una lesbica praticante. Tutto era assolutamente egoriferito, per cui esistevamo solo io e le mie love story da tre barra quattro settimane. Il mio primo gay pride è stato milanese e deludente, come quasi tutte le prime volte. Mi sono annoiata, ho conosciuto le amiche di quella che allora era la mia fidanzatina, e sono tornata a casa a ripassare autori greci per l'interrogazione del giorno dopo. Era molto più comoda l'esistenza, scandita dai compiti in classe. Gli anni sono passati e, nel mio totale disinteressamento, non ho mai mancato un pride. Forse perché dentro di me ritenevo giusto esserci, nonostante non abbia mai amato alcuna manifestazione collettiva. In tutto il mio essere acerba, avevo il sentore di essere parte di qualcosa, anche se non mi sentivo parte di niente. Capivo che tutte quelle persone così lontane da com'ero io, altro non erano che i miei simili, e dovevo accettarli, ma soprattutto farmi accettare. La sentivo come una missione: quella era la mia specie e non l'avrei abbandonata nemmeno per l'opera omnia di Carver.

Ad oggi, ogni volta che partecipo a un gay pride, non so bene perché lo faccia. Innanzitutto, ne esco sempre infastidita. Mal sopporto la musica, i carri, le piume, gli addominali, perfino certi modelli di occhiali da sole. Le persone che fanno fotografie e gli striscioni, sempre uguali (e quindi, rassicuranti), le serate dopo il corteo, i volantini che leggo tutti dall'inizio alla fine (più per una forma di nevrosi che di interesse). Non mi diverto, eppure quella giornata non è mai una giornata persa. Acquista una sua dimensione, e questo mi basta. Mi aiuta a capire per qualche minuto ciò che poi mi sfugge per tutto il resto dell'anno. Mi specchio in qualche vetrina mentre mi piovono coriandoli nella tshirt e, a differenza di tanti anni fa, mi riconosco, per cui evito anche di accendere il televisore. 

Non ho mai sopportato chi boicotta i pride, perché non vuol dire niente. Non ho mai sopportato chi è contro i gay pride, perché non vuol dire niente. E non ho mai nemmeno per un attimo assecondato chi non comprende i gay pride, perché non c'è niente da capire. Io stessa non riesco a coglierne un aspetto impegnato o carnevalesco. Non mi interessa. Mi sembrano giorni in cui possiamo mostrare quello che siamo fino ad ostentarlo, e questo mi riempie di speranza, mi sembra giusto o, molto banalmente (ma nemmeno troppo), democratico. 

Quest'anno, come sapranno tutti quanti, il pride nazionale si terrà a Bologna. Ho letto alcune delle polemiche sorte in relazione al terremoto e compagniabella. Ognuno aveva qualcosa da dire, come accade sempre nel nostro paese. Il problema è che pochi avevano qualcosa di interessante da dire. L'idea di un pride più contenuto inizialmente mi ha dato da pensare. Il rispetto alle persone che soffrono mi è sembrato qualcosa di nettamente scollegato da quella che è la nostra festa. Poi ci ho pensato, e ho pensato che in fondo non mi interessa che al posto di un pezzo di ladygaga ci sia romagna mia. Purché non ci sia troppo contegno. Una calamità naturale è una tragedia, ma la nostra condizione è altrettanto tragica e non accenna a migliorare. Per cui.

Ci vediamo a Bologna. O magari anche prima.

sabato 26 maggio 2012

Ex volume 1.

Sono stata via un po'. Non c'è stato un motivo preciso, fondamentalmente la causa è stata il sonno. O forse no, forse cose più grandi, ma di cui davvero non saprei parlare. So che ci sono, ecco tutto. Nel mentre perfino blogspot ha cambiato l'interfaccia. Questo mi ha convinta a tornare. Ho pensato, magari torno tra dieci anni e non trovo più nessuno. E così oggi scriverò qualcosa a cui non ho pensato. Ho visto che avete continuato a leggermi: tutto ciò è piuttosto commovente. Approfitterò dell'accanita allergia per fingere di piangere nel mio fazzoletto di stoffa. By the way, grazie. È strano avere qualcuno che ti aspetta, a me non m'ha mai aspettata nessuno.


Oggi volevo parlare del tempo, invece parlerò delle ex. 


Si tratta di un argomento veramente articolato e forse andrebbe diviso in più capitoli. Per questo motivo il titolo del post sarà Ex volume 1. Conoscendo la mia costanza, sarà il primo e ultimo tomo che le riguarda, ma non si sa mai, in fondo nel 2004 la Grecia ha vinto gli europei.


Partirò da una definizione di ex. La ex è un essere umano uguale a tutti gli altri, che per un dato lasso di tempo è sembrato speciale, indipendentemente dal fatto che sia finita per colpa vostra o per colpa sua. 


In base, poi, a come è andata, possiamo classificare diversi tipi di ex.


La stalker
È un tipo di ex comune, ma meno di quanto non si creda. Questo perché tutti fondamentalmente pensiamo di valere moltissimo e che gli altri non facciano altro che pensarci, mentre invece magari stanno giocando a flipper. Comunque, quando capita, è una piaga. Messaggi a ogni ora del giorno e delle notte, comparsate sotto casa con fiori o altri ninnoli, lettere scritte a mano e profumate a mo di feuilleton ottocentesco e mea culpa. Per tutto: per quella volta che ti ho fatto la pasta scotta. Per quando non sono voluta venire a teatro. Per tutti quei piccoli litigi che però ci tenevano unite. Per Noi, con la enne maiuscola. La stalker, ogni tanto, minaccia di suicidarsi, facendovi preoccupare. È subdola, ma soprattutto, ha molta più voglia di vivere di quanto non l'abbiate voi.


La vendicatrice
Mi è stato consigliato con una dolce intimidazione nella tiepida notte di togliere questo piccolo idilio. Ecco fatto. La versione integrale del post potete comunque trovarla nelle migliori edicole a 0,20 centesimi+iva. 


La sputtanatrice
No scusate, era questo. 


Ricominciamo
È quella ex che tenta di riconquistarvi. A differenza della stalker, non attua alcun tipo di vittimismo, ma di una cosa è vittima, purtroppo: dell'entusiasmo. Quindi aspettatevi sorprese assolutamente indesiderate e atteggiamenti che vi riempiranno di tristezza. Per esempio, se uscite a bere qualcosa, non fatele prendere nulla che contenga una ciliegia: potrebbe tentare eroticamente di passarsela sulle labbra e niente è meno erotico di una donna che non vi piace più e che gioca con la frutta credendosi Drew Berrymore. Questa regala uno stato continuativo di horror vacui. Vi fa domandare: cos'è l'amore? E cosa sono io? E perché prima era tutto e ora nulla? Sono io sbagliata? O la vita è infelice e basta? E le svuoterete il bicchiere.


Gelosia
È la ex che tenta di riportarvi a lei facendovi ingelosire. Premettendo che una persona può essere più o meno gelosa per sua natura, e premettendo che quando si molla una persona esserne poi gelosi è grottesco, a tutte rode il culo che qualcuna si approcci a quella che è stata la nostra donna, sebbene ora la vediamo come una statuetta del presepe. Be, questa ex, muoverà in voi reazioni inaspettate. È abbastanza pericolosa, perché compiere passi falsi (ovvero, ritornare sui propri) è un attimo. Ma tranquille, passerà dopo una notte o due e potrete sempre dar colpa all'antistaminico.


Quella che diventa gnocca
C'era una volta una che vi veniva dietro quando eravate molto giovani. A voi non interessava, perché vi piacevano quelle più grandi, oppure una vostra compagna di classe, oppure ancora i playmobil (nel mio caso). Be, c'era una volta e non più di una e si usciva e si stava insieme due settimane e poi tra pianti adolescenti da entrambe le parti ci si lasciava per sempre. Ok, ma lei era una racchia, questa era la questione di fondo. Be, passano gli anni, vi compaiono le prime rughe e il lavoro vi assorbe e vi rovina. Una sera in metropolitana mente tentate di darvi un tono leggendo Foster Wallace, vedete una che pensate di conoscere. E cristo, sì che la conoscete. Ed è figa. E non sarà mai più vostra. 


Alla prossima puntata.

domenica 15 aprile 2012

Una e quaranta, libri e confusione.

È da un po' di tempo che vorrei scrivere un post sui libri. Che poi detta così non vuol dire niente, ma va be, se ne dicono tante.

Premetto che leggo quasi esclusivamente sui mezzi pubblici. La mattina prendo apposta un treno che ci mette più del doppio del tempo che ci impiegherebbe un altro treno, che oltretutto parte pure più tardi. Se non leggo almeno un'ora prima di iniziare a lavorare la mia giornata è più difficile. Anche il caffè che bevo appena arrivo in ufficio mi sembra peggiore. In verità è sempre la stessa cialda, quella viola. Sa dio quale differenza ci sia tra i colori. 

Il mio rapporto con la lettura è assolutamente conflittuale. In due parole, mentre leggo, soffro. Non mi sento tranquilla. Ogni volta che apro una pagina a caso mi viene una specie di disagio e penso non arriverò mai alla fine, manco fosse il fottuto k2. E così, un'ansia tra le tante dopo l'altra, non ho più smesso di scalare. 

Mi piacciono tanto quelle persone che leggono libri come si guarda un reality. Mia madre, per esempio, è sempre stata così. Vuole rilassarsi, legge Anna Karenina. Non sa cosa fare, si butta sull'opera omnia della Ginzburg per la settantesima volta. Quando da piccola in spiaggia tentavo maldestramente di foggiare tartarughe con le mie formine lei sfogliava Balzac compiaciuta manco la nostra vicina di ombrellone con Evatremila. Eppure mia madre non è mai stata una donna colta. Solo, non ha mai smesso di leggere per tutta la vita. 

Ora che sta in ospedale e non riesce a leggere, io che non ho mai saputo che dirle, e in generale, che non ho mai nemmeno intuito cosa potesse raccontare una figlia a una madre, le leggo delle pagine. Mio fratello, nerd da prima che coniassero questo termine, le ha scaricato sull'Ipad dei libri a caso. La maggior parte in lingua straniera e non originale: per esempio c'è una bellissima edizione de I Miserabili in cirillico. Così l'altro sabato le ho detto scegli: la bibbia o i promessi sposi (gli unici due titoli in italiano).

E così mi ha risposto leggimi quella parte, quella in cui muore Cecilia e la mamma la mette sul carro. Io manco me lo ricordavo quel pezzo. Ho pigiato sulla lente e digitato cecilia, cosa dovevo fare. E poi mi è venuto in mente e le ho detto ma guarda che in questo capitolo sono tutti morti, sei sicura? Non so, non mi sembrava bello in ospedale. Ma lei mi ha detto che era sicura. E allora ho iniziato e ogni volta mi dimentico di quanto sia complicato leggere ad alta voce e sbaglio completamente i tempi e la punteggiatura e l'intonazione è sempre la stessa, come quando in prima elementare ti fanno leggere il tema sulla tua domenica o descrivi un animale.

Ma alla fine ce l'ho fatta. Dopo trentacinque minuti di balbuzie abbiamo seppellito Cecilia insieme ed è lì che ho pensato di scrivere qualcosa sui libri. Perché i libri hanno tanti significati e stanno dappertutto e hanno un potere speciale, perché permettono di parlarsi senza nemmeno guardarsi in faccia. Penso che ci si dovrebbe leggere cose a vicenda più spesso. Anche in coppia, per dire. Tipo, se si litiga, bisognerebbe lasciare perdere le solite cose e troia e vaffanculo e le note isterie e la consueta pace. Bisognerebbe leggere un pezzo di libro a caso, che comunque avrebbe sempre più senso delle nostre parole di copione estemporaneo, sempre così uguali e male improvvisate. 

Io ho iniziato a leggere tardi, perché ho imparato tardi. Allora, proprio come adesso, mi pareva impossibile. La prima parola che sono riuscita a leggere avevo già quasi sette anni ed è stata saldi su una vetrina. Me lo ricordo ancora, perché mi sono sentita felicissima, manco avessi decifrato la Stele di Rosetta. Mi sono sentita così completa, così adulta, che ho pensato di non smettere mai più. E quando ho smesso, per alcuni mesi in alcuni periodi della mia vita, mi sono accorta che la mia esistenza è scivolata come se avesse ancora meno senso del solito.

Non potrei nemmeno immaginarmi una vita senza storie. E mi fa soffrire pensare che ci siano persone che riescono a farne a meno. Non leggere è perdersi praticamente tutto.

Buonanotte.



lunedì 2 aprile 2012

Uova.

Prima guardavo la televisione. A me piace molto guardare la tv e penso di non farlo abbastanza. Guardare la tv è qualcosa di completamente estraneo a quasi tutta la gente che conosco e questo fondamentalmente mi preoccupa. Forse dovrei riconsiderare i miei rapporti interpersonali. By the way, sbocconcellavo la merda di mediaset e a un certo punto è passata la pubblicità dei Kinder Gransorpresa a.k.a i gigakinder uovo di Pasqua. Niente, praticamente ci sono questi due fratelli un maschio e una femmina facciadacazzo ariani (as usual) che prendono due uova e le dipingono. Cioè, due uova di gallina. E le dipingono un po' bianche un po' arancioni, come la carta del Kinder. Poi le mettono sul comodino e buonanotte, quattro caccole sugli occhi dopo è già la mattina di Pasqua.


Insomma. Dipingono due uova di gallina come se fossero Kinder capite? È sconvolgente. Ora non voglio entrare nel solito discorso della pubblicità e quant'altro, non vorrei emettere alcun giudizio creativo e chissenefotte. Il fatto è che penso che davvero esistano bambini che dipingerebbero un uovo a guisa di Kinder. E questo mi fa molto riflettere. Un aborto, una cosa che esce dal culo e serve per fare la frittata, completamente fagocitato da un brand testimonial ufficiale della lecitina di soia. Un prodotto che ci ammorba da anni e non c'è tecnologia non c'è consolle non c'è smartphone che riesca ad allontanarci dalla piccola gioia nell'aprire quelle capsule gialle di sorpresine, con gli occhi bramosi manco si trattasse di un etto di coca.


Capsule. Sorpresine. I due bambini sono fratelli chiaramente. La sorellina è leggermente più giovane perché comunque il primogenito è meglio che sia maschietto e avanti così a cercare sorpresine e colorare uova di gallina bianco e arancio. Comunque, questa pubblicità, ha portato anche del buono. Molti dei miei ricordi partono da uno spunto trash, tanto che una delle mie reminescenze più incredibili è riemersa guardando un video con Marisa Laurito. Va be insomma. Queste due teste di cazzo appoggiano le uova sul comodino. Non mi ricordo se ognuno il suo oppure in comune.


Stacco.


Io con un cesto di vimini pieno di uova sode che me ne vado in chiesa da sola il sabato prima di Pasqua. Roba che avrò al massimo otto anni e il mio portachiavi l'ho trovato in un numero di Topolino. Un portachiavi che mi chiede nome cognome e indirizzo e io diligentemente compilo, poi mio padre me le becca e mi dice ma sei scema? Sul mazzo di chiavi scrivi dove abiti? Poi se le perdi ci vengono in casa. E io che penso, ammazza, ma come ho fatto a non pensarci? Ma subito sento la sigla dei Cavalieri dello zodiaco e il tubo catodico mi risucchia in venti minuti di gioia e solitudine lontana dalle chiavi, dagli indirizzi, dal Topolino che non mi è mai piaciuto punto.


Sì, insomma, cammino e me ne vado in chiesa perché il sabato santo si benedicono le uova ed è tradizione eccetera che i ragazzini portino delle uova sode decorate e via dicendo. E io ho questa sensazione brutta, questa intuizione giusta, di avere le uova peggio decorate della storia del sabato santo. Che mia madre le ha fatte bollire e io le dico: e la carta velina? E i colori indelebili? E le formine e gli occhi e gli stuzzicadenti che fanno le braccia e i capelli spaghetto e tutto il resto? E il vinavil? E mia madre mi dice non sono capace guarda, non sono capace. E io che le dico manco io sono capace. E lei mi risponde ecco vedi che bello? Siamo uguali. E io che non capisco: devo essere arrabbiata o felice? Si riduce la nostra eterna distanza oppure si solca uno spazio definitivo e addio per sempre? Sto trovando mia madre o la sto salutando? E papà sarà capace? E mio fratello che è grande grande e poco ariano?


Sta di fatto che varco la soglia della chiesa che mi sembra enorme e vado a sedermi a una panca a caso perché quelli del catechismo non sono mai stati amici miei. E allora inizio a sbirciare nei loro cestini e cosa vedo: vedo pirati e vedo arlecchini e orsi e gatti e cagnolini. Vedo sposine e gufi. Vedo anche una Marilyn che me la ricorderò finché campo: questo uovo di tulle rosso con la paglietta bionda dei capelli e un neo disegnato. Vedo l'uovo con la maglia del milan. Vedo una quantità di cose che non avrei mai creduto possibile potessero convivere tutte in un cestino solo.


E rimango lì tra tutti questi colori e l'odore dell'incenso da messa che mi è sempre piaciuto tanto. Rimango lì a guardarli come se fossero un mosaico e io il tassellino caduto, ma tanto stava in basso e chi l'ha visto? E guardo nel mio cestino e le mie uova sono ancora tutte vive. Disegnate a bic. Nera. Due occhi, il naso e una bocca che non sa se ridere o che.

sabato 31 marzo 2012

Quando voglio.

Quando voglio scrivere un post me lo devo sentire.


Per esempio, adesso non me lo sento.

mercoledì 28 marzo 2012

Aiutiamo una tesista.

Ciao, 
sono Arianna, l'amica di Chiara.
Ti spiego subito la faccenda: per la mia tesi di laurea magistrale svolgo una ricerca sull'attaccamento di coppia e desiderio di genitorialità. Dovrei quindi cercare come soggetti delle coppie sia gay che lesbiche che stiano insieme da almeno 2 anni, che abbiano un'età compresa tra i 25 e i 40 anni e senza figli. Dovrei fargli compilare una serie di questionari, che richiedono una mezzoretta di tempo. Essendo cartacei, la zona che mi è possibile raggiungere per consegnarli è Milano e province vicine, tipo Bergamo, Monza Brianza, Lecco, Como, Varese e Pavia. 
Visto che sto contattando gente a destra e a manca ma non è così facile trovare 30 coppie, chiedo anche a te se hai amici o conoscenti che soddisfano i requisiti e che sarebbero disponibili.
Grazie mille per la disponibilità ad aiutarmi e spero non sia un problema.


Mi ha scritto questa ragazza (amica di chiara eh? Credetemi, una garanzia). Possiamo aiutarla? Io lo farei più che volentieri, ma una storia di due anni non l'ho mai avuta nemmeno per sbaglio.


Se qualcuna/o (asterisco e sticazzi?) volesse contribuire al suo studio, può contattarla a questo indirizzo revery.house@virgilio.it


Daje.

martedì 27 marzo 2012

Due progetti e sticazzi.


Vorrei parlarvi di una cosa, anzi due. La prima si chiama Re(l)azioni a catena ed è un progetto di BADhOLE video. Se non le conoscete, rimediate assolutamente. Questo è il loro sito. Lì ci trovate alcune delle cose che girano e che a me piacciono molto, come mi piacciono tutti quelle persone che fanno cose belle, o quantomeno fanno cose (in queste caso, comunque, belle). Hanno deciso di girare una web serie, ma una cosa fatta bene costa. Per questo chiedono una mano. Per cui allungate le vostre braccine corte: sia mai che cinque euro possano portare un po' di gioia da qualche parte (sicuramente non nelle loro tasche).
Io ovviamente ancora non l'ho fatto, ma provvederò.






Il secondo progetto si chiama Le lesbiche non esistono ed è di Produzioni dal basso. È un documentario e qui trovate come contribuire (oppure no).


Forse ogni tanto posso diventare utile, oltre a scrivere le mie cazzate. Una cosa è certa però: il nostro mondo forse è un po' nascosto, ma produce ininterrottamente, siano video, blog, libri o qualunque altra cosa ci venga in mente.


Ed è sempre bello trovare dei propri simili quando hanno qualcosa da dire.


Buonanotte.



domenica 18 marzo 2012

Tempo.

Mi sono sempre state sul cazzo quelle persone che millantano di non avere tempo. Ho sempre creduto che fosse per dire, come si usano certi avverbi tipo assolutamente o certe espressioni come a monte, o certe parole come idiosincrasia. Ci sono cose oggettivamente brutte, una di queste è raccontare agli altri di non avere tempo. Ovvero, ritagliarsi del tempo per sottolineare di essere molto impegnati.


È quello che farò per tutto questo post.


Saffoavevaibaffi sta andando bene in un modo insperato. Quando ho aperto la pagina sapevo che qualcuno mi avrebbe letto, non immaginavo così tante persone. Ero in un momento di buio profondo, come si evince dalle scelte cromatiche del blog e dall'immagine invisibile di una saffo disegnata a matita. Avevo bisogno di sentire di esserci ancora e allo stesso tempo di incipriarmi l'ego, e allora ho fatto l'unica cosa che so fare, cioè ho scritto.


Non so perché mi leggiate. Io un blog come questo non lo leggerei mai, per dire. In ogni caso, quando si ha la certezza di essere letti, monta una specie di ansia da prestazione. Qualche volta inizio a scrivere e poi lascio perdere e ogni cosa non è mai abbastanza né troppo poco e allora è meglio andare a fissare il muro e buttare il tempo. Lasciarlo scivolare dietro il calorifero, sopra una confezione di ketchup, sul muretto del parco postatomico dove giocano i bambini dopo la scuola.


Mi manca il tempo. Non ne ho più, o meglio, ho sempre lo stesso. Fin da piccola ho dei problemi nella gestione e nella percezione del tempo. Da bambina mi disperavo perché non passava. Chiedevo l'ora continuamente, mi sembrava pazzesco che qualcosa potesse trascorrere così lentamente. Nemmeno la centoventisette di mio nonno andava così piano. Il tempo qualche volta non passava per niente, era fermo, e a me veniva un'angoscia, quel sudorino alla nuca che viene anche durante le prime giornate di primavera, quando si toglie la felpa e si rimane in maglietta dopo mesi. È una sensazione brutta e bellissima allo stesso tempo, come tutto ciò che ci fa percepire di essere vivi.


Le ore libere adesso sono sempre le stesse. E negli stessi momenti non può succedere niente di significativo. Le cose che accadono sono lì per accadere, è come telecomandare una macchinina col filo: di quelle sfigate che c'erano negli anni ottanta per i bambini meno pro. Ai bambini pro i cingolati che andavano a quindici all'ora. La macchinina col filo invece, correva, ma tu dovevi correrle dietro e tua madre dietro a sua volta, se capitava, qualche volta no. Tutto un correre da nessuna parte, proprio come adesso, ma un correre.


Corri al lavoro, e a teatro, corri al corso di inglese, corri per uscire, corri a trovare le persone, che ti vada o meno, corri a una cena, corri a vedere quello che pensi ti sembrerà diverso e va a ricomporre sempre lo stesso mosaico. Corri in centro, corri all'estero, corri a cambiare un paio di pantaloni che hai comprato troppo di fretta. Corri a sentire i Kasabian. Corri. E non arrivi mai da nessuna parte, arrivi dove sapevi che saresti arrivato. E non vai avanti. Stai lì a correre senza nemmeno dimagrire.


Invece qualche volta è bello prendere il tempo e sprecarlo. Foss'anche per stare a fissare tre ore la fibbia di una cintura. Il tempo va sprecato. Va modellato a piacere e senza criterio, è importante che il tempo perda parte della sua importanza. È bello leggere trenta volte la stessa pagina di un libro, come per impararla a memoria, anche se è un libro di nessuna importanza. È bello esserci, ma non sapere dove, e come. È bello non avere preoccupazioni. È bello pensare che non saremo qui per sempre: non so se vi capita mai di pensare al vostro funerale, ma è manna per l'ego. È bello ghignare in faccia a chi dice di non avere tempo. Mandaci tue notizie, fai tante foto: non ho tempoooo. E via.


Sono contenta di aver appena perso un quarto d'ora e di avervi fatto perdere cinque minuti.


Avrei voluto parlare di un sacco di cose belle. Ma in fondo c'è tempo.

sabato 10 marzo 2012

Tre quarti d'ora alla volta.

Giovedì parlavo con la mia psicologa di un po' di argomenti che mi costano circa un euro e cinquanta al minuto. Quanto una tariffa tim sbagliata, per dire. Un quarto del mio stipendio finisce lì, in quella stanza iperborghese e retrò, col divanetto su cui non mi voglio sdraiare, la sua poltroncina e la mia. Ci guardiamo in faccia e ci separa un tavolino di legno sul quale, da più di un anno vedo, a partire da sinistra: un pacchettino di fazzoletti di carta (spesso cambia la marca), una biro blu col tappino, i suoi occhiali da presbite.


I fazzolettini ogni tanto li prendo se piango. Non capita spesso, ma se inizio ne finisco un pacchetto. Perché io sono così, se piango allora voglio farlo con tutti i crismi, fino a che la testa non mi esplode. Le prime volte che uscivo di lì avevo una gran voglia di bere cioccolata. Anche a luglio. Doveva essere una specie di compensazione bo, lo zuccherino dopo la vaccinazione, cose così. Però non la prendevo, non mi pareva qualcosa che potesse farmi bene. Ora, quando esco da lì, ho una gran fame solo perché sono le nove di sera, sono in giro dalle otto del mattino e tutto quello che desidero è trangugiare qualcosa a caso (magari un filettino cottura media) e lasciarmi cadere sul divano, al buio, senza fare niente. Oppure uscire con qualcuno, oppure leggere, ma solo ad alta voce. Scopare, mai.


Giovedì, dopo lo scatto alla risposta, si parlava di relazioni sociali, e reazioni alle relazioni sociali, e percezione delle relazioni sociali. Sembra complesso ma è una cazzata. Dopo aver passato in rassegna : a) il terribile rapporto con la mia famiglia b) l'incapacità di costruire la minima relazione sentimentale con chicchesia c) il blocco dello scrittore, sono arrivata a d) le amicizie e il vuoto che lasciano una volta finite, in modo manifesto oppure no.


Chiaramente i punti a, b e c continuano ad essere una costante delle telefonate face to face, ma il d, mi ha dato le sue soddisfazioni. La mia psicologa è una vecchia signora, penso non poco cattolica. Non saprei come definirla, se non rinsecchita. Fisicamente è piccola, ma si vede che il suo karma è un wrestler. Non nutro adorazione per lei, e nemmeno fastidio, o dipendenza. Pare che debba scattare, ma non scatta. Qualche volta, la pacco. Il mese scorso, a lei, ho preferito un paio di jeans al cinquanta per cento, per dire. Poi torno, con i miei pantaloni nuovi e un bisogno disperato di tirarmi fuori da tutto quello che non mi convince.


Un pomeriggio ho parlato con una che con l'analisi c'era rimasta sotto. Parlava del suo psicterapeuta come certi vegani parlano dei legumi. C'era un'adorazione sfrenata e tutta la sua terminologia verteva attorno al mondo degli amici di Freud. Mi ha fatto bene conoscere questa persona. Per l'ennesima volta ho capito cosa non voglio diventare.


Perché io levo, più che costruisco. Mi plasmo togliendo tutto ciò che non vorrei essere. Come fossi un blocco di marmo buttato lì da chissà dove, anno dopo anno, con uno scalpellino della grandezza di un uovo kinder, ho cominciato a scavare. E modellare. E lisciare. E perfezionare. Capite che non è che possa sbagliare troppo. Un colpo sbagliato e potrei diventare l'utente media di Forum. Una psicopatica del cazzo. Un'appasionata di pesca al salto. 


E così, più o meno verso i venticinque euro, si parlava di amici. Di quelli che c'erano e quelli che non ci sono più. Perché si sono allontanati, o tu da loro. Della tristezza e dell'inevitabilità del tutto. Una di quelle cose che non ti spieghi, ma accadono tutti i giorni a chiunque. Per anni insieme e poi puff, qualcosa inizia a diventare ricordo, e la quotidianità un album di foto e la complicità una parola che ritroverai solo in un romanzo della Mazzantini. Una bomba, una di quelle cose che ti sembra che la terra ti manchi da sotto le scarpe.


Andrebbe accettato così. Senza risentimenti, senza nostalgie. In fondo, una persona che si allontana, può essere anche un miracolo, una gran botta di culo, mica solo tristezza. Per ogni persona che si allontana, forse, qualcuno si avvicina. E poi forse si allontanerà a sua volta, no? Chi può dirlo. Forse.


E così si va avanti per un bel po' di anni, finché non ci si dimentica di tutto e si spegne la luce.


Il che è comunque sempre molto confortante.