venerdì 25 novembre 2011

Tomboy Vs Gameboy.

E così ho visto Tomboy. Non posso dire molto riguardo questo film. Come non posso dire molto riguardo ai film in generale. Mi è sembrato carino, leggero ma non semplicistico, mai banale, ma comunque non necessario. In ogni caso ottantaquattro minuti di non sofferenza, o quantomeno di disagio sopportabile. Cioè bene.

In sala non si era in troppi e non molte erano le lesbiche. Ho ruminato qualche patatina per il gusto di dar fastidio. Perché di mercoledì al cinema generalmente si ritrovano quelle persone che deprecano chi mangia in poltrona e così via. Nota surreale del tutto: nella fila davanti alla mia c'erano sei preti, uno dei quali sorseggiava una Sprite. Questa davvero non l'ho capita, è una di quelle cose per cui le persone si stupiscono, come se un sacerdote poi non potesse andare al cinema. Io dico, un sacerdote può, ma sei.

Finito il film si fumava una sigaretta annichiliti dall'umidità, quando una carissima amica etnografa ci ha fatto notare come tutti quei bambini fossero completamente innaturali nei loro giochi di bambini. E il bosco bucolico, e il lago bucolico, e il campetto da calcio bucolico, e soprattutto la bucolica bandierina, quell'attività medievale di chiamare un numero e correre verso un tovagliolo e tentare di portarselo a casa senza essere presi. Io ricordo con orrore la variante bandierina americana. Non la spiego perché ancora mi viene la pelle d'oca.

Bè sì, i bambini di Tomboy sembravano usciti da una pubblicità della Coop. Ho apprezzato l'intenzione della regista di mostrare l'infanzia così incontaminata e pura e ludica e di quella cattiveria prevedibili dei cinque anni in su. Ma il duemilaundici sta per finire. E tutto questo non esiste. E di sicuro non esiste in Francia. Tanta concitazione per vedere alcuni propri simili e una squinzia a caso, una manciata di giorni prima dell'inizio della scuola. E grandi tuffi in acqua e lotte demodé.

Io, che sono nata e cresciuta in provincia, posso dire che ci si trovava la sera, ma anche il pomeriggio, sotto l'albero con le radici grandi del parchetto che ora è un parcheggio e poi sì, ok, si giocava e si bazzicava tutti, finché non si veniva ripescati. Ma non c'era tanta partecipazione, eppure era il millenovecentonovanta. Rubabandiera estemporanei però mai visti. Quello rientrava nei giochi sadici a cui ci obbligavano nelle ore di ginnastica, detta anche educazione motoria, o trauma per sempre.

No dico, io me lo ricordo bene. Con l'arrivo del Sega Master system 2 la popolazione di giocatori pomeridiani si era ridotta di un buon quaranta per cento. Non c'era campanello che tenesse, importava solo Sonic. Col Sega Megadrive poi, la situazione è peggiorata, fino a diventare drammatica con l'avvento della prima Playstation, ma lì leggevo già svogliatamente Jacques Le Goff in un inutile saggio sull'usura nel basso Medioevo. 

Tutto questo in Tomboy non compare. Compare una bambina che si sente bambino, con una sorellina che si sente Shirley Temple e un fratellino che ancora deve arrivare, e che quando arriva ha la stessa pettinatura di Paolo Limiti. Dov'è La Wii in Tomboy? Perché cazzo nessuno palesa la necessità di mollare i sette minchioni nel bosco e correre a casa a guardare i siti proibiti del papà? Perché tanta tenerezza e colori pastello? Non c'è risposta. O forse sì. Il punto è che non la conosco.

Inoltre gli spaghetti con il pongo non si fabbricano più dalla seconda serie di Merlose Place. 

martedì 22 novembre 2011

Al lavoro!

Sono stata fagocitata dal lavoro. Letteralmente. Il lavoro mi ha divorato mentre mangiavo piadine seriali al pc. Una metamangiata del cazzo, da cui non sono ancora uscita. In questo momento è mezzanotte e sto di nuovo al pc, ma non sto mangiando e sono a casa mia. Il che mi fa ben sperare. 


Avevo molte cose da dire i giorni scorsi. Ma poi le ho scordate tutte. Il lavoro è così. Io sto male da quando sono nata, ma il lavoro ha peggiorato tutto. In un certo senso però ha portato anche qualcosa di buono: posso dire di essere stata meglio di ora, e sono consolazioni. Sapete che i fiori di Bach io li bevo a canna? E se potessi li stapperei con l'accendino. Una cosa che non ho mai imparato, ma che, a quanto pare, per una lesbica è imprescindibile.


Dicevo. Il lavoro è una merda. Non sono la prima a dirlo, nemmeno a dirlo male. Il lavoro non è una merda perché, che ne so, è precario? Sottopagato? Che ne so, noioso? No. Io penso che il lavoro sia una merda semplicemente perché è brutto. Se ti va male vuoi ucciderti, bene che ti vada ne diventi schiavo. Non so se mi fa più pena uno straziato dal lavoro o uno che ne sia ossessionato. A me fanno pena quelli che ci credono. 


Io ammiro molto chi non lavora. Cioè chi può permetterselo. Non è che li invidio, li ammiro ecco. L'invidia, quella è di default. Penso che non ci sia nulla di male nel non farsi sottrarre metà delle proprie giornate, nel non farsi umiliare, nel non compiacersi nel vedersi accreditato lo stipendio alla fine del mese. Perché un po' viene da essere felici, quando si vedono i soldi sul conto. Ma poi felici di che: l'alternativa sarebbe lavorare gratis e allora lì sì che saresti stronzo vero.


Il lavoro succhia l'anima anche a tutto quello che rimane fuori dall'ufficio. Lontano dalla propria scrivania, del proprio portapenne, dal cassetto pieno di cose per niente nostre, c'è bulimia. Si legge bulimici, si nuota bulimici, si gioca bulimici, si scopa bulimici, si guarda un film bulimici, teatro bulimico, concerti bulimici e ci sei stata alla Biennale? No, non ci sono stata. Sarebbe stata bulimica anche quella. Week end bulimici, brutti anche se li chiami fine settimana.


I ponti. Lì la bulimia si fa arte, expedia impazza e i treni sono pieni e mi piacerebbe tanto tornare in Umbria uno va sempre fuori dall'Italia e poi si dimentica di quante bellezze e tutto quanto. Quando hai un po' di tempo libero ti viene da raccontare quello che ti hanno sempre insegnato a non dire, al liceo classico, quando impari alcune parole come avulso, apotropaico, errabondo, idiosincratico, atarassia.


Diventiamo come bambini, davanti al tempo libero. Ci slegano (sleghiamo, nel caso dei liberi professionisti) il guinzaglio e ci dicono: via nell'area cani! Avete quarantotto ore per annusare culi, potete farvene al massimo due, grazie e a lunedì. La domenica sera non aspettiamo nemmeno che ci fischino, tanto il collare si allaccia facile, mica sono quelle catenacce da Melampo. A proposito, di Melampo era rimasta solo la catena. Ecco uno che ce l'ha fatta.


Tanto di burattini pronti ad abbaiare per un po' di pane e Radiohead live è pieno Infojobs.







martedì 15 novembre 2011

Al mio compleanno voglio un quartetto d'archi.

È una vita che tento di appartenere a qualche gruppo senza riuscirci. Il primo giorno di università una certa Marie Claire mi fermò nel corridoio chiedendomi se volessi far parte di questa realtà incredibile di giovani impegnati, qualcosa di assolutamente innovativo e noi ci incontriamo a Molino Dorino il sabato mattina. Erano i marxisti leninisti. Innovativi quanto il 1917. Ricordo di averle lasciato il mio numero di telefono. Mi ha chiamato ogni settimana, instancabilmente, per anni. Ho apprezzato molto la sua fedeltà. Nessuna donna si è mai più presa tanto cura di me. Per questo voglio salutarla, ciao Marie Claire, il mio numero ce l'hai.

Da quando ho questo blog ricevo un sacco di inviti su facebook. A serate di ogni genere. Che  declino chiaramente, per una serie di motivi. Il primo la pigrizia, il secondo la sociopatia. Ho scoperto che tra le lesbiche è un'usanza comune dichiararsi sociopatiche. Sono quasi sempre quelle stesse che poi sorseggiano vodka lemon come non ci fosse un domani e passeggiano con disinvoltura in ogni dove. Ragazze, la sociopatia esiste, datemi retta. Ed è un'altra cosa.

Ho notato che in tutti questi inviti a serate a cui non andrò mai, c'è sempre un dj set. E guardandomi un po' intorno ho capito che il dj set è un po' come la sociopatia: va. Così mi sono interrogata su questa attività e ho capito che un mixer è tante cose, ma più di tutte è una specie di carta moschicida. E che sì, insomma, vanno i dj set perché vanno le dj. Allora mi sono guardata un po' intorno. Alla terza cassetta tatuata sull'avambraccio ho deciso di riprendere Proust.

La donna che mette la musica è come il miele per l'orso, la bamba per Maradona, il cappellino per Misseri. È qualcosa di irrinunciabile. E la donna a cui piace la musica lo sa, e già che c'è la mette. E fa bene. È fondamentale capire per tempo cosa fare al momento giusto, solo, piano con le ancore sui polsi, a meno che non siate, che ne so, grandi estimatrici di Verne. Allora assumono un significato commovente. Dj Jules, mai più senza.

Quello che voglio dire è che ho sentito parlare di decine di lesbiche dj e ho iniziato a preoccuparmi. Avete presente quando si facevano quei discorsi strampalati sui licei, quando qualcuno affermava che mica tutti possono fare l'università se no poi chi lo fa il macellaio? E chi lo fa il panettiere? E chi lo fa il beccamorto? Ci sono un sacco di ruoli scoperti, nella nostra comunità. Per esempio, se io volessi acquistare un centrino per la mia dimora, e lo volessi assolutamente prodotto da una lesbica, a chi dovrei rivolgermi? 

E se avessi bisogno di comprare marmellate bollite esclusivamente da lesbiche? E se volessi  che le piastrelle del mio bagno fossero incollate da lesbiche? E se volessi una dog sitter lesbica? E se desiderassi che il tizio della dhl fosse una gran bella tizia? E se avessi l'esigenza di un riavvicinamento alla religione cattolica e necessitassi di una suora omosessuale? Non so, mi preoccupo. Non posso pensare che, bene che mi vada, una donna possa regalarmi un dj set.

Ma soprattutto, avete notato che il moscow mule non lo fa bene quasi nessuno? 

sabato 12 novembre 2011

Lost and furious.

Il 2001 per me è stato un anno piuttosto significativo. Saltellavo da giovane lesbica di sinistra tra il cadavere di Carlo Giuliani, il grosso buco del World Trade Center, l'Afghanistan e le riforme Moratti, con una spensieratezza che non ho mai più incontrato, senza capirci assolutamente un cazzo. È stato in quello stesso anno che ho conosciuto le mie prime donne inutili: stelle pioniere di un universo perennemente in fieri. 


Ed è stato nel 2001 che ho capito che per essere lesbica, non bastava essere lesbica. Ma occorreva quantomeno dedicarsi alla visione di qualche film che allora andava, e sfogliare la Winterson senza mai dimenticare che Sarah Kane è stata grande e Il pozzo della solitudine è un romanzo imprescindibile. A diciassette anni si è molto lontani dalla minima idea di verità.


Così era uscito questo film di cui si sbrodolava in ogni sito, questo L'altra metà dell'amore. Lost and delirious, in origine, tanto per mantenere un livello accettabile di ottimismo. Bè, imperdibile, cazzo. Però allora al cinema andavo poco e mi piacevano soprattutto i film del mercoledì sera, quelli che mi davano una pacca sulla spalla all'uscita della sala e mi dicevano, dio ti benedica compagna alternativa.


Allora ve bé, sono passata al videonoleggio. Però uno di quelli impersonali, modalità bancomat. E ho fatto quello che dovevo fare. Era ancora una videocassetta. E così, a casa, ho cominciato a guardarlo e sono rimasta esterrefatta da questa cosa che tutte le lesbiche ne parlassero, perché non c'erano donne in quel film. C'erano delle automobili! E allora ho pensato, ma in che razza di mondo mi hanno messo? Come farò a sopravvivere, se la tribu eterosessuale mi ha rinnegata e quella lesbica lo farà appena si accorge di me?


Niente, fondamentalmente avevo preso Fast and forious invece che Lost and delirious. In inglese non sono mai stata una cima. Non riesco a dare credibilità a una lingua che non sia la mia. Questo è un limite incredibile. Quando non riconosco le mie parole, anche se capisco quello che quegli idiomi lontani vogliono dirmi, non dò loro la minima credibilità. 


Poi ho guardato il film corretto e ho preferito il primo.

mercoledì 9 novembre 2011

Venti alla volta.

Stavo per girarmi una sigaretta. E intanto guardavo le statistiche del blog. Ho saputo oggi della loro esistenza. Mi meraviglio ogni volta della quantità di cose che ignoro, non senza una certa forma di autocompiacimento, per poi stupirmi di tutto come un'idiota. Va così. Dalle statistiche è risultato che i post contenenti almeno una volta la parola lesbica (per chi volesse saperne di più) sono mediamente letti il doppio degli altri. Per questo dirò lesbica lesbica lesbica.


E ora parliamo di fumo. Tra pochi mesi faccio dieci anni ti tabagismo. Ho alternato fasi diverse, come ogni fumatore. Ci pensavo ieri, mentre guardavo un pacchetto di tabacco aspettando che mi dicesse qualcosa. E così, ho deciso di ricordarmi di tutte le marche che ho attraversato. In genere questo è uno di quei giochi che faccio quando non riesco ad addormentarmi, spero possa aiutare anche voi. Una sera, al liceo, tentavo di ricordarmi tutti gli orologi che indossavano i miei compagni di classe, rigorosamente per disposizione di banco. A un certo punto non mi veniva in mente quello di Giovanna e ho passato quasi tutta la notte con questo pensiero ossessivo. Era un casio g-shock rosa porcello.


Allora, dunque, ho iniziato con le Merit in gita, perché mi sembrava un nome poco impegnativo da annunciare alla tabaccaia, in barba alla mia timidezza patologica di allora. Un attimo dopo fumavo una Benson and Hedges, come il buon Cesare Cremonini in Un giorno migliore (godetene tutte). Il pacchetto da venti costava due euro, erano ancora momenti in cui bastava una monetina per essere felici. Un febbraio di terza liceo ho virato bruscamente sulle Camel. Quelle normali, fumose. Ho pensato, sono lesbica, posso. Puzzavano incredibilmente. L'estate della maturità è stata attraversata dalla cometa Reynolds: erano sigarette normali, con un pacchetto diverso, che faceva pandane con la mia condanna di genere. Ora, se le cercate su google immagini, compaiono alcune bare. Speriamo bene. 


I primi tempi dell'università sono stati molto fumosi. La scarsa lucidità di ogni giorno mi faceva frequentare abbondanti pacchetti di Diana blu e lo confesso, una volta o due pure le rosse. Mai stata più lesbica. Poi sono uscita un paio di volte con le Pall Mall, tutta immagine, sostanza zero. Anzi, mi facevano pure un po' schifo. Marlboro touch, quando stavo con una ragazza che le fumava: ma lei aveva molti soldi, abitava in Sant'Ambrogio. Camel light, amiche fedelissime per quattro anni. Ogni tanto mi mancano.


Poi chiaro, una serie di incontri occasionali, tra i quali ricordo con affetto quello con le Linda. Una marca di sigaretta che ho preso solo perché mi faceva pena. E le Muratti, per vedere come ci si sente a sessant'anni. Quelle ultrasottili mai e poi mai invece. Piuttosto mi metto i tacchi.


Ora fumo il tabacco. Perché costa meno e mi mostra più in linea con il mio personaggio. Insomma, ha più plus che minus, che sono le cartine che a volte mi si strappano e i filtrini che vanno da tutte le parti. Una volta ne ho ingoiato uno, ridendo mentre lo stringevo tra i denti. E' stata una sensazione orribile, ho dovuto bere molto per farlo andare via. Mia nonna avrebbe spezzato e offerto un tozzo di pane, in modalità ultima cena, per cacciarlo. Mia nonna è ancora viva e la saluto: ciao nonna.


E con questo post inutile chiudo quest'inutile mercoledì. Mi servirebbe più tempo per scrivere.
Mi servirebbe più tempo per vivere.

domenica 6 novembre 2011

Disgrazie eccetera.

Stamattina, mentre mi ammazzavo di vasche, pensavo a un paio di cose, ossessivamente. Il nuoto è un'attività che asseconda molto i pensieri controproducenti. Innanzitutto pensavo che mettersi a nuotare in quel modo, avanti e indietro, è qualcosa del tutto innaturale. Voglio dire, si è mai visto un pesce andare a correre? Il secondo pensiero era rivolto a quello che è successo a Genova e alle catastrofi tutte e di come vengano mediamente affrontate dalle persone che incrocio.

Quando ci si imbatte in questi discorsi si cade inevitabilmente in qualche forma di qualunquismo, che però è anche il primo punto del manifesto di questo blog, quindi non potrei in ogni caso sottrarmene.

E' che non si parla più di quello che succede. Sarà che si lavora tanto e senza orari, e che non si guadagna un cazzo, e che la sera spesso si è molto stanchi, e che la frustrazione è l'unica compagna che ci comprende davvero. Dopotutto, se le cose andassero bene, i social network non avrebbero tutto il successo che continuano ad avere.

E però si parla poco. Penso allo sharing, alla condivisione. Penso alla Genova di questi giorni. E penso alle disgrazie in generale. E poi penso che questo famoso sharing si nutre soprattutto di disgrazie. E allora via, si linka. Linkiamo De Andrè, che fa sempre la sua figura e per una volta cade davvero a pennello. E poi linkiamo il video della ragazza alla finestra che riprende i cassonetti che fanno le vasche per le strade e dice cazzocazzocazzo. Linkiamo la storia della mamma rimasta uccisa con le due bimbe. Linkiamo l'abusivismo, gli articoli de Il Post, Ilfattoquotidiano. Le brillanti comparazioni tra Genova e L'Aquila. Linkiamo le catene e i numeri verdi e tutto quello che potrebbe aiutare quelle persone che stanno surfando sui divani. 

E' che tutto questo non aiuta nessuno, e che non riesco a non vedere una forma di protagonismo della disgrazia. Chiaro, non in tutti e non sempre e soprattutto mai consapevole. Ma ci sono persone che si prodigano in mille attività (tutte rigorosamente da scrivania) ogni volta che succede qualcosa. E sono le stesse che guardano tutti i fotolink di Repubblica: il fiume, i morti, le macchine, i cassonetti. C'è una galleria per ogni oggetto, i giornali distribuiscono kit per il bravo amico dell'alluvionato.

Poi vai al bar e la gente al tavolo mica intona Creuza de ma o La città vecchia, in onore della Genova allagata. Mica parla dell'alluvione, la gente, quando si incontra. O se ne parla, lo fa con discrezione e con una specie di distacco rispettoso, e le frasi finiscono quasi sempre con uno sbuffo e le braccia che si aprono come a dire: che cazzo, è successo. In internet invece vale sempre tutto. Ed è un tutto che non coincide con quello che capita per la strada. E allora continuiamo a guardare le foto di Corriere.it sperando silenziosamente di incontrare almeno un cadavere galleggiante e poi spegnamo e andiamo a dormire. 

Fortuna che di disgrazie è pieno il mondo.

giovedì 3 novembre 2011

Oggi, qualunquismo.

Ieri parlavo di questo blog a una lesbica che a quanto pare ne sa. E mi sono accorta di non saperne niente. Questa rivelazione socratica mi ha trascinata in un vortice di frustrazione infinito, tanto che volevo chiudere il blog piangendo anche per un'altra serie di motivi tra cui il mio stipendio, le alluvioni in Thailandia e il programma di Renzi. Due bicchieri di rosso più tardi, tutto come prima. 

Il guaio è che le lesbiche sono molte, ed è difficile parlare a tutte. Per ora mi seguite in cinque o sei, ma io ho la tendenza a ingigantire problemi inesistenti. Insomma, siamo in molte. Considerando che quasi tutte le lesbiche che ho incontrato le ho conosciute a letto, sono cresciuta con la convinzione che si trattassero esclusivamente di creature da parquet, ninfe da piumone, dame da lenzuola. Bellissime, certo, ma estremamente contestualizzate. E così mi sono persa tutto il resto.

Poi un giorno mi sono accorta che le lesbiche esistevano a prescindere dalle mie pulsioni sessuali. Ho oltrepassato uno Stargate senza ritorno, ma sono rimasta in una specie di limbo: quello dell'ignoranza per la mia stessa specie. Un pinguino sa tutto degli altri pinguini? E un suricate? E i canguri? Non sono alibi, non sono alibi.

Allora ho iniziato a guardarmi in giro. E ho scoperto che esistono lesbiche di qualunque foggia e dimensione e hanno interessi diversi e si aggregano e stanno ovunque oppure da nessuna parte e ieri mi hanno detto, datti alle alternative, oppure, devi parlare a tutte, mica solo alle radical chic del cazzo, ma, ma tu hai mai visto una puntata di L-word?

Mai. E così, in questa giornata grigia e monodimensionale ho realizzato che tutte possiamo dare qualcosa alla nostra grande famiglia senza relazioni di parentela. E quello che ho deciso di apportare al nostro focolare sempre spento è una massiccia dose di qualunquismo a guisa di ceppo di legno. Voglio dire, c'è chi fa la fila per una dedica di Fabio Volo, le troverò quattro stronze che arrivano fin qui.

mercoledì 2 novembre 2011

Chat amarcord.

Da adolescente sono stata un'incallita chattatrice. Dopo aver scoperto (per caso) una chat lesbica, avevo deciso di dedicare la mia intera esistenza a questa causa senza scopo. Ho trovato molte delle mie donne in chat. Non so se l'avete notato anche voi, ma ci si vergogna sempre a raccontare di aver trovato la propria donna in una chatline. Lo capisco. In sé è di una tristezza che lascia senza fiato, ma è pur sempre una soluzione valida.


Scopare è la meta, poi, come ci si arriva, è un dettaglio. Io avevo deciso di trovare donne stando comodamente seduta in poltrona, come un pensionato al suo decimo anno di inattività lavorativa. Ogni tanto sorseggiavo del te, come se qualcuna poi potesse vedermi. Era il duemila e le chat erano spoglie e grezze. Per almeno tre anni non ho fatto altro che chattare, scambiarmi il numero di telefono e incontrare, incontrare, di continuo.


Mi ricordo che a un certo punto mia madre aveva nascosto il modem, complice mio fratello. Io mi sono abbonata a un internet point. E tra un cingalese e un magrebino, continuavo imperterrita la mia attività peccaminosa di lesbica e internet dipendente. Poi è arrivata l'adsl e la possibilità di lasciare libero il telefono di casa stando contemporaneamente al pc. Il resto è storia che conosciamo tutte.


Potrei scrivere pagine e pagine sui miei incontri al buio, e di certo non mancherò di riportare i più significativi. Non farò nomi solo perchè non me li ricordo. 


Sono tornata in una chat, qualche mese fa. Rimane il refugium peccatorum di chi resta improvvisamente sola ed è troppo povera per bere sufficienti Long Island da affrontare una serata lesbica qualunque. Non è più come una volta. Skype e Facebook sono diventati i nemici numero uno dell'anonimato e del mistero da chat. Ci si scambiano i contatti ed è subito faccia, corpo, taglia di reggiseno, gusti musicali, attività del giorno. 


Ci si scambia tutto ancora prima di darsi qualcosa. E questo non sarebbe nemmeno male, se non fosse che le facce di turno sono spesso incompatibili con i propri gusti. Inguardabili, se vogliamo. E allora si lascia perdere. Una bottiglia di Montenegro al supermercato non è ancora un bene di lusso.

martedì 1 novembre 2011

Da qualche parte si deve iniziare.

A sedici anni ho aperto per la prima volta un libro di letteratura greca. Era bianco, pulito, asettico, un po’ come questo blog. E mi ricordo di quanto fosse leggero, nonostante la sua mole, rispetto ai libri delle altre materie. Non aveva nulla che non andasse, ma nemmeno niente che potesse andare. Era mio, ma uguale a quello di tutti gli altri. Era qualcosa di indefinito, un po’ come me. Con il tempo ha cominciato a sporcarsi, piegarsi, ha trovato una sua dimensione nello spazio sempre uguale dello zaino, identico a quello di tutti i miei compagni di classe. A maggio portava il mio nome, i miei scarabocchi, i 4 che disegnavo ossessivamente a bordo pagina (ancora non mi è chiaro il motivo, ma ho continuato per anni), ed era pronto a tutto, anche a Saffo. Come me.

Del capitolo di Saffo ricordo solamente un particolare, che è poi tutto quello che so di Saffo, salvo qualche verso che devo avere intravisto in un paio di volantini lesbici pseudoimpegnati. Diceva qualcosa come “la poetessa aveva un incarnato olivastro e della peluria sul viso”. Bè, è stato una rivelazione. Che Saffo fosse lesbica, lo sapevo già perfino io, ma che avesse i baffi. L’ho sottolineato molte volte e, due mesi dopo, ho trovato la mia prima ragazza (senza baffi e con molte altre mancanze).

Penso che la vita sia un susseguirsi di eventi apparentemente inutili, che nella loro inutilità si incastrano perfettamente l’uno con l’altro e tessono qualcosa che alla fine non è tanto male. E’ la nostra esistenza, ed è qualcosa che ci appartiene, anche se potremmo averne una migliore. Oggi, per puro caso, mi sono imbattuta in un blog lesbico estremamente frequentato, che però non mi piaceva per nulla, e così ho pensato di aprirne uno mio. In ogni caso saluto quel blog, ciao Lesbianfordummies, e grazie per l’imput (la mia è solo invidia, forse).

A cosa serve questo spazio? A niente. Qui si parla di ciò che ci riguarda, ma solo se ci va. E si legge, ma solo se ci va. Io vedrò che mi vada di scrivere, o non ci sarà nessun blog. Si creerà con il tempo e si sporcherà e allora sarà bello, come il mio libro di greco, se lo riapro ora.