domenica 24 giugno 2012

Social?

Sono una persona mediamente tollerante. Conosco bene i miei limiti e i miei deficit comportamentali e psicologici e anche le mie debolezze. Sono delle grandi potenzialità, se si imparano a gestire, perché niente è più interessante di un disagio quando è ben convogliato da qualche parte. Potrebbe essere una fonte di energia alternativa. Ma tu hai una macchina a disagio? Ma com'è ti trovi bene? Distributori? Ovunque. 


Mi piacciono le persone che soffrono, ne sono attratta istintivamente e senza alcuno spirito da crocerossina. Tanto per farvi capire, il mio approccio non sarebbe "Posso aiutarti?", ma "Ti va di affondare insieme?". E così, sono sempre qui, e non che stia bene, chiaro. Sono una persona mediamente tollerante: non mi dà fastidio chi mastica rumorosamente, non odio chi tira su col naso, e chi ascolta la musica troppo alta con l'ipod mi fa tenerezza, perché perderà l'udito. Non mi irrita chi legge Moccia, non mi va di sparare a chi guarda La5, mi stanno benissimo i vegani fondamentalisti. Tanto finiremo tutti uguali e allora aver odiato, o anche solo aver provato fastidio, ci sembrerà uno dei molti modi in cui abbiamo lasciato che la nostra vita si consumasse. Io non odio niente e nessuno, ma c'è una categoria di persone che non sopporto: quelle che la mattina, sui mezzi, guardano facebook sul telefono.


Ora, chiaro che non sono affari miei, ma chiaro anche che in un certo senso lo sono. Cominciare la giornata facendo incetta di stronzate è il miglior modo, per esempio, per investire qualcuno successivamente. Oppure fare una carneficina. Oppure dire cose mediocri. Oppure irritarsi per la fila al supermercato. E allora, se rimango coinvolta anche solo in una di queste attività, inevitabilmente c'entro anche io. Pertanto ho il diritto di oppormi all'ora di facebook mattutina via smartphone. Mi fanno una pena infinita quelli che hanno un telefono come il mio, per esempio, che ci mette venticinque minuti per caricare una pagina. Stanno lì, lo scuotono, sbuffano e arrancano, finché un riflesso blu non ingombra le lenti dei loro Wayfarer. E allora si rilassano, come quando sei in un luogo in cui non troverai mai un accendino e nessuno attorno a te fuma e lo cerchi e stava in fondo alla borsa. Salvo, ma chissà ancora per quanto.


C'è una tizia, in particolare che prende sempre il mio treno, quel tipo di donna che qualcuno che conosco non esiterebbe a definire una milfona. Ecco, lei si siede in uno di quei posti vicino alla presa della corrente, nel caso l'iphone dovesse scaricarsi. Arriva presto apposta, non so che dire, è così. E poi va su facebook. E sorride. Ogni due minuti, sorride. E io dietro al mio libro mi chiedo che cazzo ci sia da sorridere, e penso, ma quando sto su facebook io sorrido? E mi pare proprio di no. E mi chiedo anche perché devo fare tutta sta fatica a leggere e studiare e capire e andare avanti e superare quello che è il mio lavoro, quando nessuno me lo richiede, mentre un giorno uno qualunque di questi tizi potrebbe arrivare e presentarsi come il mio nuovo capo.


Questa è l'unica vera pecca che riconosco ai social network, che tanto utili risultano sotto altri punti di vista: l'appiattimento. L'assenza di pensiero. Anzi, il provocare riflessioni troppo brevi e interrotte per essere tali. La facilità. Il capire tutto immediatamente. La completa assenza di ricerca e, quindi, di introspezione. L'eccessiva autoreferenzialità, quando niente si ha da raccontare. L'esistere per il solo fatto di avere un profilo. Gli stravolgimenti verbali che hanno provocato, per cui diario è quel diario e pagina è quella pagina e perfino amico sta diventando quell'amico e profilo non è più una persona vista di lato. E l'impossibilità di uscire da tutto questo, almeno per ora. E l'essere tutti alla portata di tutti. Prima di facebook non conoscevo tanta stupidità, perché non era quello che mi ero costruita attorno. E ora la subisco, come il passato di verdura a quattro anni. 


Finché un giorno non mi sembrerà qualcosa di assolutamente normale, e arriveranno cose ben peggiori, tipo i capperi. 


E avanti così, o forse no?



domenica 3 giugno 2012

Pride.

Ho visto il mio primo gay pride a tredici anni. I miei mi avevano spedita in una di quelle vacanze dove la mattina vai a scuola a far finta di imparare l'inglese. Insomma, stavo a Brighton e c'era il sole e io non ero ancora una persona. Oltre a non avere un vero e proprio orientamento sessuale, ero priva di qualunque tipo di orientamento, tant'è che mi ero persa. E vagando alla ricerca di qualcuno che potesse riportarmi da dove ero venuta mi sono imbattuta prima in due Catwoman e poi in Batman e Robin. Questi due limonavano felici in un'aiuola, come non ci fosse un domani. Pur non essendo più in fasce, non mi ero mai minimamente posta la questione dell'omosessualità. In quella fase della mia esistenza mi guardavo spessissimo allo specchio chiedendomi da dove cazzo fossi venuta, ma soprattutto dove sarei andata, finché non mi pigliava un attacco d'ansia (che allora non interpretavo come tale, ma come un calo di zuccheri) e mia madre veniva a portarmi via. Mi piazzava davanti alla televisione. Dio solo sa quanto mi è stata utile la televisione.

Qualche anno dopo ho partecipato al mio primo gay pride. Sapevo di essere lesbica, ma non mi importava troppo. Il lesbismo per me era ancora qualcosa di completamente teorico, pur essendo una lesbica praticante. Tutto era assolutamente egoriferito, per cui esistevamo solo io e le mie love story da tre barra quattro settimane. Il mio primo gay pride è stato milanese e deludente, come quasi tutte le prime volte. Mi sono annoiata, ho conosciuto le amiche di quella che allora era la mia fidanzatina, e sono tornata a casa a ripassare autori greci per l'interrogazione del giorno dopo. Era molto più comoda l'esistenza, scandita dai compiti in classe. Gli anni sono passati e, nel mio totale disinteressamento, non ho mai mancato un pride. Forse perché dentro di me ritenevo giusto esserci, nonostante non abbia mai amato alcuna manifestazione collettiva. In tutto il mio essere acerba, avevo il sentore di essere parte di qualcosa, anche se non mi sentivo parte di niente. Capivo che tutte quelle persone così lontane da com'ero io, altro non erano che i miei simili, e dovevo accettarli, ma soprattutto farmi accettare. La sentivo come una missione: quella era la mia specie e non l'avrei abbandonata nemmeno per l'opera omnia di Carver.

Ad oggi, ogni volta che partecipo a un gay pride, non so bene perché lo faccia. Innanzitutto, ne esco sempre infastidita. Mal sopporto la musica, i carri, le piume, gli addominali, perfino certi modelli di occhiali da sole. Le persone che fanno fotografie e gli striscioni, sempre uguali (e quindi, rassicuranti), le serate dopo il corteo, i volantini che leggo tutti dall'inizio alla fine (più per una forma di nevrosi che di interesse). Non mi diverto, eppure quella giornata non è mai una giornata persa. Acquista una sua dimensione, e questo mi basta. Mi aiuta a capire per qualche minuto ciò che poi mi sfugge per tutto il resto dell'anno. Mi specchio in qualche vetrina mentre mi piovono coriandoli nella tshirt e, a differenza di tanti anni fa, mi riconosco, per cui evito anche di accendere il televisore. 

Non ho mai sopportato chi boicotta i pride, perché non vuol dire niente. Non ho mai sopportato chi è contro i gay pride, perché non vuol dire niente. E non ho mai nemmeno per un attimo assecondato chi non comprende i gay pride, perché non c'è niente da capire. Io stessa non riesco a coglierne un aspetto impegnato o carnevalesco. Non mi interessa. Mi sembrano giorni in cui possiamo mostrare quello che siamo fino ad ostentarlo, e questo mi riempie di speranza, mi sembra giusto o, molto banalmente (ma nemmeno troppo), democratico. 

Quest'anno, come sapranno tutti quanti, il pride nazionale si terrà a Bologna. Ho letto alcune delle polemiche sorte in relazione al terremoto e compagniabella. Ognuno aveva qualcosa da dire, come accade sempre nel nostro paese. Il problema è che pochi avevano qualcosa di interessante da dire. L'idea di un pride più contenuto inizialmente mi ha dato da pensare. Il rispetto alle persone che soffrono mi è sembrato qualcosa di nettamente scollegato da quella che è la nostra festa. Poi ci ho pensato, e ho pensato che in fondo non mi interessa che al posto di un pezzo di ladygaga ci sia romagna mia. Purché non ci sia troppo contegno. Una calamità naturale è una tragedia, ma la nostra condizione è altrettanto tragica e non accenna a migliorare. Per cui.

Ci vediamo a Bologna. O magari anche prima.