sabato 19 gennaio 2013

Porte a vetri

Ogni tanto mi guardo allo specchio e tento di identificare quale tipo di lesbica sono. Io non sono mai stata bene da nessuna parte, nella vita dico. All'asilo stavo male. A scuola stavo male. Mi mandavano all'oratorio e stavo male. Al parchetto stavo male. Insomma, ovunque mi piazzassero, io soffrivo. Dimenticavo: al corso di nuoto stavo malissimo. Però non ho mai ostentato il mio disagio, cioè, non l'ho mai fatto pesare diciamo. Da bambina volevo tantissimo assecondare i miei, tipo esprimendo della sincera gioia nello scendere in cortile a giocare con gli altri bambini. È che non la provavo per niente. 

Ricordo questi interi pomeriggi di "proviamo a vedere se oggi Sara gioca con gli altri bambini", in cui mia madre mi portava davanti alle giostrine. C'erano il castello, l'altalena, la macchinina rimbalzina e una serie di altre stregonerie che mi lasciavano oltre l'indifferenza. Lei si sedeva sulla panchina e apriva un libro, uno sempre diverso perché leggeva velocissima. E io stavo lì di fianco, senza libro perché ancora non sapevo leggere. Stavo lì e guardavo i bambini giocare. E guardarli mi piaceva da morire, ero felice che si divertissero ed ero ammirata dalla loro disinvoltura nel parlarsi o dalla loro agilità nell'arrampicarsi. Ce n'era uno che si chiamava Daniel che sapeva camminare sulle mani e io ero estasiata e pensavo, questo Daniel mi piacerebbe conoscerlo, ma poi era come se davanti a me ci fosse un vetro e anche se avevo cinque anni capivo che questo vetro ce l'avrei avuto di fronte per un sacco di tempo. Dopo un po' mia madre mi chiedeva, vuoi che andiamo? E io dicevo sì, anche se sarei rimasta a guardali per sempre. Però mi aspettava un gelato, un premio alla mia incapacità di socializzare. Sono tanto contenta che lei non mi abbia mai fatto pesare questa cosa, che non mi abbia guardata con disapprovazione quando aspettavo che tutti uscissero dalla vasca con la sabbia per entrarci io a fare due formine sghembe a forma di tartaruga. 

Poi ho iniziato a fingere, ho iniziato a giocare anche se avrei preferito rimanere a guardare e basta. Ho iniziato a giocare e non mi piaceva, però mi faceva sentire integrata e uguale agli altri, ma il vetro era ancora lì. Quando le ragazzine davano i primi baci ai ragazzi, io baciavo il mio vetro infrangibile. Quando compravano il rimmel, io pulivo il mio vetro infrangibile. Quando facevano il gioco della bottiglia alle feste di compleanno, io pregavo che quella cazzo di bottiglia non mi ndicasse e non è mai successo perché il karma mi è stato accanto e perché mi invitavano a poche feste di compleanno.

Ora che ho ventotto anni mi guardo allo specchio, che alla fine è un vetro anche lui e mi chiedo a quale tipo di lesbica possa appartenere, perché ci tengo a questa cosa. Però non so esattamente quanti tipi ne esistano. Allora mi guardo e mi vedo troppo poco indie, troppo poco femminile, troppo poco mascolina, troppo poco impegnata, troppo poco disimpegnata, troppo poco elegante, troppo poco trasandata, troppo poco colta, troppo colta, troppo proud, troppo poco proud e in più non ho mai visto Lword. Le poche volte che mi capita di frequentare ai locali mi sembra di stare allo zoo, un po' per gli esemplari che ci trovo, un po' per il mio approccio alla cosa, un approccio che definirei etologico. Poi ogni tanto qualcuno arriva dall'altra parte del vetro e mi fa toc toc e se mi va apro. Con il tempo è diventato una finestra. 

4 commenti:

  1. Almeno ora so che ti chiami Sara e hai 28 anni, una crepa nel vetro?
    Non hai mai visto Lword? aggiungilo ai 10 buoni propositi insieme a Pulp fiction :-)

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  2. Ora che ci penso potrei mettere delle graziose tendine.

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    1. Quando il vetro diventa una finestra vuol dire che hai trovato realisticamente la distanza giusta.
      L.

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  3. fiori sul davanzale ;)
    bello leggerti di nuovo.
    Scir

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